di Antonio Ciccia e Alessio Ubaldi 

 

Ai fini della punibilità per il reato di guida in stato di ebbrezza l’accertamento del tasso alcolemico costituisce presunzione di prova assoluta né assume rilievo la conoscibilità, da parte del cittadino, del frenetico mutamento legislativo sui limiti che separano la guida lecita da quella illecita oltre che penalmente rilevante.

Lo ha stabilito la quarta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 18044, depositata il 29 aprile 2015.

Nel caso di specie una giovane ragazza, in esito a una serata tra amici, è stata oggetto di un controllo di polizia stradale mentre era alla guida della sua vettura. Rilevato il superamento del tasso alcolemico consentito, la conducente è stata processata per guida in stato d’ebbrezza ai sensi dell’art. 186, lett. b), del codice della strada.

Il tribunale di primo grado, facendo leva sul limpido accertamento dell’autorità di pubblica sicurezza, ha accertato la responsabilità penale dell’imputata, condannandola alla pena detentiva. La sentenza è stata in parte riformata in appello con la commutazione della pena detentiva in quella pecuniaria e la concessione del beneficio della non menzione sul casellario giudiziale.

La decisione della Corte territoriale è stata sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità cui è stato chiesto l’annullamento della condanna sul presupposto che nella giovane difettasse il dolo di voler violare il codice stradale, ponendosi alla guida in stato d’ebbrezza. Più in dettaglio, la difesa ha cercato di giustificare la condotta della propria assistita muovendo dall’impossibilità, per un cittadino di normale diligenza, di seguire i frenetici mutamenti legislativi concernenti i limiti che separano una guida alcolica legale da quella illegale. A ciò si è aggiunto come la ragazza si fosse limitata a consumare una «birra piccola», circostanza che le impediva di pensare di aver superato il limite di legge. Facendo perno su tali argomentazioni, la difesa ha dunque rappresentato l’erroneità della sentenza resa dalla Corte d’appello siccome il verdetto tralasciava il quadro complessivo della vicenda, limitandosi a dar seguito alle sole risultanze del test alcolemico.

Ebbene, non uno degli argomenti difensivi prospettati ha trovato accoglimento. Segnatamente, gli ermellini hanno motivato il rigetto del ricorso sulla base di due principali argomentazioni.

In primo luogo, si è rimarcata la natura contravvenzionale del reato contestato, e dunque la punibilità indifferentemente per dolo o per colpa dell’illecito. La fattispecie criminosa in questione – si è aggiunto – raffigura un’ipotesi di reato ostativo, siccome volto ad impedire la commissione di ulteriori e più gravi delitti contro l’incolumità fisica e la vita della persona umana: da qui, la particolare pregnanza dell’accertamento del tasso alcolemico, che gode di una presunzione assoluta di stato di ebbrezza a fronte della quale non è ammessa prova contraria. In secondo luogo, la Corte ha radicalmente ricusato l’argomento della «conoscibilità» del disposto di legge. Nella sentenza in rassegna si afferma che, in merito ai frequenti mutamenti normativi in materia e alla difficoltà del cittadino di conoscere la norma penale, «va osservato che l’ignoranza lamentata si risolve in un errore sul divieto e non sul fatto (art. 47 c.p.), pertanto non scusabile ai sensi dell’art. 5 c.p., non trattandosi di ignoranza inevitabile, trattandosi di previsioni di norme scritte, regolarmente pubblicate sulla gazzetta ufficiale».

In conclusione, la sentenza di secondo grado è stata confermata, con l’aggravio della condanna alle spese del giudizio di legittimità.

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