di Luca Gualtieri
Il futuro di Banca Carige è appeso ad Andrea Bonomi. Ne è ormai convinto il mercato che ieri, pur in una giornata semifestiva con volumi inferiori alla media (appena 29 milioni i titoli passati di mano), ha portato sugli scudi le azioni della banca ligure, con un rialzo a fine seduta del 5,15% a 0,061 euro.
Il rally è stato innescato dai rumor sempre più insistenti su un investimento diretto di Bonomi nel capitale diCarige , come accaduto nell’autunno del 2011 con la Banca Popolare di Milano . Secondo indiscrezioni di stampa, la trattativa tra l’imprenditore milanese del private equity e la Fondazione Carige (oggi primo azionista della banca al 19%) sarebbero già partite, anche se le distanze in materia di prezzo risulterebbero ancora significative. L’ente guidato da Paolo Momigliano avrebbe infatti domandato un premio del 20% sulle quotazioni del titolo, richiesta a cui però Bonomi non avrebbe acconsentito. «L’obiettivo della Fondazione», ha commentato ieri Equita in un report, «è quello di monetizzare, in tutto o in parte, la propria quota in modo da poter successivamente partecipare all’aumento di capitale, limitando la diluizione. La situazione», continua Equita, «resta ancora molto fluida visto che la Bce deve ancora esprimersi sul capital plan (la decisione è prevista per il 4 febbraio), approvando l’entità dell’aumento di capitale, e che la Fondazione deve ancora dare l’ok al piano di ricapitalizzazione».
Di certo l’uscita di Bonomi dalla partita per Club Med (si veda box in pagina) libera risorse per nuovi investimenti. Al punto, secondo altre indiscrezioni, che l’imprenditore potrebbe mettere nel mirino una quota maggiore del 20% ipotizzato finora, sottoscrivendo parte dell’aumento di capitale da 650-700 milioni.
A questo punto però non è chiaro se la Fondazione sia intenzionata o meno a mantenere un legame azionario con la banca. Nei mesi scorsi era emersa l’ipotesi di un patto di sindacato tra l’Ente e i nuovi azionisti, sul modello di quanto accaduto su Mps con Fintech e Btg Pactual. Una soluzione di questo genere avrebbe permesse di stabilizzare la governance con un nocciolo duro di soci di riferimento. Ma se l’intero 19% finisse sul mercato, il legame tra la Fondazione e la banca si spezzerebbe definitivamente, con prevedibili polemiche a livello di politica locale. (riproduzione riservata)