Due giorni fa, i titoli dei tre principali quotidiani italiani, Il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, valorizzavano un aspetto dell’audizione della Banca d’Italia sulla legge di stabilità. Esso riguardava la possibilità di inserire il Tfr in busta paga, fino al 2018. Si faceva notare, al riguardo, il grave attacco alla previdenza integrativa, in particolare a quella dei bassi redditi, che si vedevano ridotte le possibilità di fare affluire ai Fondi di previdenza le risorse, via Tfr.
Francamente si assiste a delle falsità inaudite. Innanzitutto non è vero che il Tfr alimenti la previdenza integrativa. Esiste sì una legge, che ne prevede la possibilità. Ma tale legge è rimasta in gran parte inattuata. Tanto è vero che dal Tfr vanno ben pochi fondi alla previdenza integrativa.
A quindici-venti anni dal varo delle norme, e dunque in una fase consolidata, al massimo un lavoratore su quattro destina i fondi del Tfr alla previdenza integrativa. Si tratta di una scelta ponderata: è necessario, per legge, apporre una firma sull’esclusione dei Fondi dal Tfr alla previdenza integrativa. Negli ultimi anni, inoltre, una buona parte dei lavoratori, colpita dalla crisi, resta iscritta ai Fondi, ma non versa più.
In secondo luogo non è affatto vero che i fondi destinati appartengano ai redditi più bassi. Essi, al contrario, appartengono alle scale alte dei redditi da lavoro dipendente: in particolare, quelle altamente sindacalizzate, come testimoniano i titoli dei fondi principali: chimico, metalmeccanico, eccetera.
Nel settore pubblico, il decollo si è risolto in un grande flop. I Fondi del settore autonomo non sono affatto decollati: il lavoro autonomo italiano non è affatto stupido, e preferisce gestirsi da solo i propri risparmi, piuttosto che affidarli agli organismi collettivi. Tanto più ora che il saggio di interesse, il provento di gran lunga più rilevante, è ormai prossimo allo zero.
Vanno aggiunte le alte spese di amministrazione, tra cui la manutenzione di organismi sindacal-confindustriali che di previdenza non capiscono assolutamente niente. È, inoltre, una vergogna che i sindacalisti partecipino, dato che si può rilevare che i rendimenti sono alti se la contrattazione salariale va male.
Tale atteggiamento aberrante della grande stampa, peraltro, sarebbe giustificato qualora fosse obbligatoria la devoluzione del Tfr ai Fondi pensione. È una tentazione che tuttora attira i politici. Solo, essi ne temono le conseguenze in termini di consenso. Consenso sia del lavoro dipendente, che se frega altamente della previdenza integrativa. Sia del lavoro autonomo, che segue lo stesso orientamento. Sia del lavoro autonomo, inteso come datore di lavoro, che utilizza il Tfr come un prestito a basso saggio di interesse.
Ora, su quest’ultimo aspetto il governo avrebbe provveduto, tramite la devoluzione del Tfr in busta paga, accompagnata da un prestito dell’Abi, al tasso del Tfr, alle imprese che si vedono mancare i fondi. Si tratta però di una norma insensata, soprattutto perché si tratta di un rimedio temporaneo: fino al 2018 l’Abi prende infatti a prestito a tasso nullo dalla Bce. I consumi vengono scoraggiati, perché niente è garantito per dopo.
Su questo andava impostata un’altra politica, che passava per l’Inps come garante ed intermediario del prestito, da devolvere ai propri iscritti all’Inps, e da reperire presso le grandi banche. In questo caso non ci sono i pericoli per i consumi, perché il prestito è permanente. Si aprono sterminati spazi per il lavoro autonomo, non solo in termini di finanziamento del Tfr mancante, ma anche come utente diretto del prestito, tramite l’Inps.
Tutto questo can-can mediatico, invece, oscura uno dei più innovativi provvedimenti della legge di stabilità, il Tfr in busta paga. I padroni della grande stampa sono infatti interessati a truffare i lavoratori non solo sulla borsa, come è avvenuto ampiamente in passato, ma anche sulla vita (cioè la previdenza, che è la vita).
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