Andrea Greco
I l cantiere del risparmio gestito, aperto sine die da una decina d’anni, s’avvia a chiudere un 2014 con significative operazioni, favorite da un contesto più che propizio. Ma senza approfittare del buon vento per dare un futuro sostenibile ai fondi comuni italiani – con assetti proprietari stabili (meglio se autonomi), fiscalità non penalizzante e cultura del lungo termine – la bonanza attuale un bel giorno finirà in pezzi, un po’ come fu nel 2008. La prossima vendita, salvo sorprese, di un 50% di Pioneer farà entrare un grosso operatore sul mercato domestico, tra i più appetiti al mondo per ricchezza privata, marginalità, scalabilità. A comprare, pagando un miliardo o più a Unicredit per la partnership, sarà uno dei due fondi chiusi Cvc o Advent (che mirano a espandere il marchio su nuovi mercati), o il concorrente Santander, che darebbe luogo a un colosso dai tratti captive, tipo Bnp Paribas. In tutti i casi, presto il riassetto di Pioneer avrà luogo e darà vita a un leader europeo. Anche se costerà molto denaro e lavoro, perché il marchio di Unicredit è in cerca d’autore dal 2006, e nel frattempo sono fiorite geografie (Italia, Germania, Usa, Irlanda), centri amministrativi e di competenza. In casa del concorrente Intesa Sanpaolo l’integrazione annunciata sei mesi fa tra Eurizon e Banca Fideuram prepara il terreno a sviluppi di rilievo: siano collaborazioni internazionali nel ramo aziendale (o nel contiguo private banking, dove Ca’ de Sass ha ambizioni di predatore) o addirittura la quotazione del polo del risparmio, progetto che torna tra corsi e ricorsi. Finora l’integrazione procede a rilento, tra le storiche rivalità tra i gestori della banca e i promotori della rete. Ma quando sarà completata, la corazzata sfiorerà 300 miliardi di masse. E al di là delle smentite ufficiali, il management di Intesa Sanpaolo sa bene che applicando i multipli delle quotazioni correnti otterrebbe una quotazione miliardaria, e carta da scambiare per affermare una leadership continentale. Né gli altri stanno con le mani in mano. Anima (la fabbrica degli sportelli Bpm e Mps) e Fineco (la piattaforma web di Unicredit) hanno completato la quotazione con successo; Banca Generali e Azimut cercano dossier. In un mercato drogato dalla provvista monetaria della Bce e con tassi a zero prolungati, i listini sono saliti ai massimi e i risparmiatori cercano rendimenti accettabili a rischi crescenti. «Un ottimo momento per vendere», sintetizza un esperto gestore. Prodotti e società del gestito scontano le performance recenti, quindi ora trattano a multipli elevati. Si aggiunga che il crollo dei tassi minimizza i ricavi da interessi delle banche proprietarie, pertanto ansiose di spostare le entrate sul fronte commissionale, che a differenza dei crediti presenta il vantaggio di non assorbire capitale. Sembra una perfetta congiunzione astrale per l’industria. Ma la fretta di vendere – e monetizzare plusvalenze e capitali oggi preziosi – può far perdere di vista l’esigenza di riformare l’industria, per prepararla a un atterraggio non traumatico quando la volatilità, prima ancora dei tassi di sconto, ricomincerà a salire e le Borse correggeranno. Lo scenario strategico più condiviso dagli operatori è di tassi ai minimi per un triennio ancora, e patrimoni sempre più spinti verso le Borse. Già oggi l’obbligazionario sembra a fine ciclo: il Btp Italia a 10 anni paga un ridotto 2,4%, vuol dire che detratte imposte, commissioni d’ingresso e di gestione, il comparto bond viaggia a un rendimento reale poco sopra lo zero. Pertanto i molti venditori di prodotti flessibili e obbligazionari, siano a cedola o a capitalizzazione, stanno in pratica distribuendo capital gain; e spesso lo fanno con consigli di portafoglio abbastanza disinvolti. Un gestore lo chiama «trading di fondi» e lo descrive così: «Si fa comprare al cliente un fondo a 100, dopo sei mesi di rialzo dei mercati lo si fa vendere, le plusvalenze si dividono tra gestore e cliente, il quale entra in un altro fondo non dissimile ». Anche così si spiegano i 54 miliardi di raccolta dei fondi italiani nel 2014, e gli oltre 4mila fondi attivi, quasi il doppio dello scorso decennio. Queste condotte però sono effimere. Soltanto chi alzerà l’occhio per guardare gli orizzonti ampi si affermerà nel lungo termine, evitando una deriva tipo quella vissuta dall’industria fondi giapponese nella decade di deflazione e tassi bassi. Ma le istanze sistemiche vanno demandate alla politica e ai regolatori, non ai gestori. Per questo la palla è nel campo del governo, che guarda con attenzione al risparmio gestito nella sua caratteristica di polmone finanziario per le imprese, e tramite la leva degli incentivi fiscali può ridisegnarne i contorni. Nel dialogo tra l’esecutivo e Assogestioni si profilano due ipotesi. Una fiscalità ridotta sugli investimenti di lungo termine può evitare che i futuri ribassi borsistici si portino via le masse e la fiducia (il piccolo risparmiatore, protagonista del mercato italiano, vende sempre al momento sbagliato: quando la Borsa cala). Oppure, con una fiscalità ulteriormente agevolata, si può rafforzare un comparto previdenziale inadeguato.