di Paola Valentini
Chiedere alle banche di private banking qual è la soglia minima di accesso è come chiedere l’età a una donna. Difficilmente si otterrà una risposta. Per questo i numeri precisi del settore non sono noti. L’identikit dei protagonisti invece sì. Benché non manchino eccezioni tra le boutique italiane, per tradizione sono le private bank più focalizzate sui patrimoni top sono quelle estere. Grazie alla loro esperienza internazionale che comprende anche l’investment bank, servizio che i grandi imprenditori gradiscono avere a disposizione. Ma negli anni scorsi, prima della crisi, le strutture estere in Italia avevano in qualche caso abbassato il tiro perché anche la fascia media di clientela permetteva di fare una buona raccolta.
Adesso però non è più così. Si sta assistendo a un ritorno alle origini, come dimostra il caso del Credit Suisse, che ha appena ceduto il ramo d’azienda relativo ai clienti cosiddetti affluent (ovvero quelli con disponibilità che non supera qualche centinaio di migliaia di euro) per concentrarsi sul segmento top. Tra le altre blasonate strutture di private banking che offrono servizi a una fascia alta e dove è difficile trovare clienti con meno di 5 milioni di euro, ci sono Goldman Sachs (divisione private wealth management) e Jp Morgan. Sopra i 2 milioni di euro spiccano Ubs, Pictet, Schroders, Lcf Rothschild e Deutsche Bank, che ha una struttura dedicata al private wealth management. Ma l’elenco si sta ulteriormente allungando. A inizio 2014, per esempio, è nata a Milano Rothschild Wealth Management, guidata dall’ex Morgan Stanley Andrea Battilani. E tra le strutture italiane con i clienti top vanno citate la torinese Ersel, Banca Esperia (la private bank nata dalla joint-venture traMediobanca e Mediolanum) e Banor sim.
«All’estero fare private banking vuol dire rivolgersi a clienti con almeno un milione di euro, dice Marco Mazzoni di Magstat, che ha curato l’edizione 2014 dello studio sul private banking in Italia. «In passato invece le banche straniere in Italia avevano, diciamo così, invaso il campo delle banche commerciali italiane e delle reti di promotori andando a puntare anche sulle famiglie di fascia media, con patrimoni tra 250 mila e 1 milione di euro».
Ora le estere stanno facendo marcia indietro anche perché, mentre i clienti «facoltosi ma non troppo» sentono la crisi, il numero dei super-ricchi invece è in aumento in tutto il mondo e l’Italia non fa eccezione. Anzi, il numero dei Paperoni nel Paese sta crescendo di più di quanto accade in media nel resto d’Europa. Il dato emerge dal World Wealth Report 2014 di Capgemini e di Rbc Wealth Management. Secondo l’analisi, infatti, l’Italia si sta avvicinando, per numero di Paperoni, ai livelli pre-crisi. Nel corso del 2013 il numero degli ultra-ricchi (High Net Wealth Individual, ossia coloro che dispongono di più di 1 milione di dollari al netto dell’abitazione principale, collezioni e beni di consumo durevoli), in Italia ha mostrato un trend di crescita superiore a quello europeo. Lo studio indica che a fine 2013 gli individui con un alto patrimonio netto erano 203.200 contro i 175.800 del 2012: una crescita del 15,6% rispetto al +12,5 medio europeo. E il nuovo provvedimento atteso dal mercato sulla dichiarazione volontaria dei capitali nascosti al Fisco (la voluntary disclosure) potrà far lievitare ulteriormente il numero dei super Paperoni. «Intanto per puntare sui clienti con grandi disponibilità negli ultimi anni alcuni gruppi bancari italiani hanno creato strutture di family office», spiega Mazzoni. Il gruppo Unicredit ha costituito Cordusio Sim Advisory & Family Office, mentre il gruppo Mps e Banca Ipibi hanno strutturato divisioni interne dedicate ai servizi tipici del family office esclusivamente per i patrimoni top.
Magstat ha censito che a fine 2013 il numero di family office in Italia è salito a 120 (erano 117 l’anno precedente). Seguono patrimoni per 56 miliardi di euro, (l’ 8,2% del mercato servito dal private banking) e si avvalgono di 391 family officer che offrono consulenza 439 famiglie e più di 13 mila clienti. «Se classifichiamo i family office in base all’azionariato, ci sono quelli di proprietà di una sola famiglia, di più famiglie, di un gruppo di professionisti, come consulenti, legali, commercialisti, e infine quelli appartenenti a una banca o una istituzione finanziaria», sottolinea Mazzoni. Le prime tre strutture di family office (Unione Fiduciaria, Tosetti Value sim e Argos) detengono il 31,6% del mercato private gestito dai family office e il 2,6% del mercato private servito. (riproduzione riservata)