Paola Jadeluca
Roma G li 80 euro in più degli italiani è molto probabile che anziché in consumi finiscano in risparmi. Il clima è ancora conservativo. «Italian asset maangers shine as money pours in” titolava qualche giorno fa in prima pagina il Wall Street Journal, riportando i dati record della raccolta di Assogestioni, la migliore degli ultimi 14 anni. Se c’è un’industria che tira in Italia è quella dell’asset management. E chi può ancora permettersi il lusso di risparmiare, risparmia ancora più di prima. Un piccolo scorcio della vita contemporanea dal quale emerge con evidenza come la forbice tra finanza ed economia reale sia sempre più ampia. I consumi non ripartono, l’economia ristagna. Ma non si potrebbero canalizzare questi soldi verso l’economia reale? «Sono pochi gli strumenti che consentono di farlo», afferma Angelo Deiana, presidente di Anpib, l’associazione che raccoglie i principali private e investment banker. L’obiettivo principale di un private banker è quello di garantire i rendimenti del patrimonio dei clienti. Si può raggiungere questo risultato investendo nell’equity, l’azionario italiano? «Lo snodo di questo passaggio è la Borsa, ma la Borsa italiana nel Morgan Stanley Capital International, Msci, l’indice sintetico dei mercati azionari dei paesi industrializzati, conta per lo 0,89%. La Svezia, per fare un paragone, pesa per oltre l’1,3%- racconta Deiana – Con questa quota nel benchmark, un fondo straniero o una Sicav difficilmente verrebbero a investire in equity italiano. Il gestore non può fare scommessa al 90% sul mercato italiano, le Sicav focalizzate su nostro mercato ci sono ma ormai il cliente diversifica a livello global ». Un grande hub di risparmio privato è la Cassa Depositi e Prestiti: prende i soldi dai libretti postali e li alloca in asset anche di Borsa. Ma la logica, in questo caso, o è finanziaria o è politica, La Cdp, infatti, è diventata una specie di nuova Iri. In ogni caso il risultato è uno: investe prevalentemente sui big, che in Borsa rappresentano l’1% dei quotati. Un altro freno all’investimento del risparmio privato nell’economia reale è costituito dall’arco temporale dell’investimento. Gli italiani investono a breve, e dal punto di vista della Mifid non hanno un profilo adatto a comprare azioni. Sul versante dei private banker, che in portafoglio hanno spesso famiglie imprenditoriali, si avverte un altro problema: sono per lo più piccole imprese, quelle non oltre i 15 dipendenti, che costituiscono il 99% delle imprese italiane: i loro soldi sono investiti nel business di famiglia, e rispetto al patrimonio personale hanno un atteggiamento molto conservativo. In questo scenario non stupisce che nei portafogli degli italiani sia presente, onnipresente, o l’obbligazione, di Stato o corporate, ma più ancora l’intramontabile Bot. Le stesse banche investono in Bot. Quando la Bce ha erogato il grande prestito hanno preso soldi all’1% ma invece di girarli a imprese e cittadini molte hanno comprato Btp decennali che rendono anche il 6,5%. Restano tre strumenti sui quali fare leva: private equity e venture capital, fondi immobiliari e fondi pensione. Ma nessuno di questi ha finora raggiunto un peso tale da riuscire a diventare lo snodo principale per travasare denaro verso l’economia reale. Venture capital e private equity dovrebbero finanziare start up e imprese in ristrutturazione per poi rivenderle a prezzi migliori. Finora davanti a concorrenti dai rendimenti elevati e sicurezza estrema come i titoli di Stato non hanno goduto di grande attenzione. Ma non solo. Mediamente questi asset non sono quotati, hanno orizzonti temporali molto lunghi, e sono relativamente illiquidi. Buoni motivi per non prenderli in considerazione se non si una ragione speciale. E questo spiega anche perché il tanto auspicato matrimonio tra private banking e private equity in realtà non è mai avvenuto. Passiamo ora ai fondi immobiliari. Introdotti nel 1994, molti fondi immobiliari retail stanno andando a gambe all’aria per il crollo delle quotazioni del mattone. E questo non aiuta. In un quadro legislativo in evoluzione, non sono riusciti tuttavia a decollare. E gli italiani continuano ad amare il mattone fisico vero, rispetto alle quote di partecipazione. Il 49% della ricchezza del nostro paese è concentrata nel 10% della popolazione, come segnala Bankitalia, composta per 200 miliardi di attivi- o sui mercati o in depositi – il resto, 600 miliardi, è patrimonio immobiliare. Che nessuno vende in questo momento. Un patrimonio immobilizzato. Una ricchezza che non produce ricchezza. A meno di non riuscire a inventare uno strumento innovativo per rendere “liquido” tutto questo mattone. Resta a questo punto un terzo strumento, i fondi pensione, pubblici e privati. L’Unione europea sta studiando una revisione e armonizzazione di tutto il settore, in particolare cercando di trovare un modello per utilizzare i fondi pensione quali strumenti di finanziamento dell’economia, una alternativa alle banche sia per le piccole imprese- quotate e non- che per le grandi infrastrutture, il tema caldo di una audizione del Direttore Generale della Consob, Sergio Caputi, il 16 aprile scorso. I fondi pensione sono potentissimi. Muovono capitali immensi. Il fatto è che per legge, in Italia, il gestore dei fondi pensione deve essere un professionista. Che, ovviamente, cerca di allocare le risorse secondo il principio del minimo rischio e del massimo rendimento. Ma non si potrebbe “ri-orientare” questa forma di “intermediazione” e puntare dritto queste risorse, come chiede l’Ue, verso l’economia? Alle Authority europee l’ardua sentenza. Angelo Deiana presidente Anpib