di Angelo De Mattia
Il mondo bancario sbaglierebbe gravemente se, per reazione all’opinabile decisione del governo di aumentare dal 12 al 24-26% la tassazione sulle plusvalenze relative alle quote nella Banca d’Italia, rifiutasse d’intervenire nel progettato pagamento dei debiti della Pa scontando i crediti certificati delle imprese, come previsto in un primo momento. Le cronache danno conto di tale possibile risposta della comunità delle banche. È da sperare che si tratti di atteggiamenti isolati fra i banchieri: diversamente, a una forzatura, quella del governo, si risponderebbe con una dannosa ripicca, non dandosi carico di un interesse generale. Ciò non significa che si debba considerare immodificabile quello che per ora è stato solo un preannuncio da parte dell’esecutivo. E alle parole del premier Renzi, che ha sottolineato i sostegni finora dati alle banche dimenticando però le contropartite chieste agli stessi istituti nonché ottenute e trascurando che le misure approntate nel corso della crisi intendevano evitare che si stabilisse il circolo vizioso del collegamento tra esposizione delle banche e debito pubblico, fanno riscontro quelle del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che a Washington, in occasione delle riunioni del Fmi e della Banca mondiale, non ha voluto rispondere nel merito del suddetto aumento ma ha dichiarato che ne parlerà «se e quando» i provvedimenti saranno approvati, evidentemente lasciando margini per qualche correzione. E sempre nella capitale americana, il governatore della Banca d’Italia ha rilevato che l’inasprimento dell’imposta avrà impatto sulla capacità delle banche di fare credito e sul processo di irrobustimento patrimoniale. Visco ha pure aggiunto che le banche non possono essere incolpate della crisi che ha avuto cause esterne al sistema bancario italiano, il quale ora è sulla via del rafforzamento. A fronte di queste autorevoli considerazioni e sospensioni di giudizio, si dovrebbe ipotizzare che la strada da percorrere non debba essere, da parte delle aziende di credito, quella dello stare al gioco di azioni e reazioni, accrescendo così i problemi di immagine presso l’opinione pubblica, bensì indicare una soluzione pragmatica che possa vedere il governo disponibile a una sorta di mediazione. All’epoca della progettazione del provvedimento che poi ha riconosciuto il maggior valore delle quote – si badi bene: sulla base di un diritto delle banche a vederlo approvato – fu prospettata anche l’ipotesi di accompagnare la norma con una convenzione tra Abi e Tesoro sulla destinazione, per esempio, di parte dei finanziamenti aggiuntivi concedibili, senza che ciò dovesse ritenersi un «do ut des», peraltro illegittimo, ma previsto in nome della specificità di un contributo al rilancio dell’economia. Poi questa ipotesi fu fatta cadere, forse anche per le preoccupazioni di accuse di dirigismo, che però sarebbero risultate infondate, non mancando nella storia bancaria convenzioni simili. È questo un tema che ora potrebbe essere ripreso, muovendo sempre dal riaffermare la piena legittimità delle plusvalenze e, dunque, dell’infondatezza della tesi, che ha fatto molta strada nell’opinione pubblica, del regalo. Oppure possono essere percorse altre strade per giungere a un adeguato bilanciamento delle opposte vedute. Tutto ciò tacendo il fatto che il previsto gettito della maggiore tassazione – 1 miliardo – sarebbe una copertura, relativamente agli 80 euro mensili in busta paga, valida solo per l’anno in corso, a fronte di un indirizzo che avrebbe dovuto, invece, indurre a reperire coperture certe e permanenti, e appare come il classico raschiamento del barile, indice di una situazione che non è quella in cui ci troviamo, in cui altre opzioni sono pur sempre realistiche e praticabili. Si prescinde qui dal ricorso ad altre procedure, che sarebbero tuttavia valide, per il pagamento dei debiti della Pa, come l’emissione diretta di debito da parte del Tesoro. Se poi l’aggravio della tassa è stato visto come una decisione che difficilmente avrebbe potuto essere contestata, considerato il modo in cui sono percepite le banche, allora è difficile accusare di demagogia chi solleva dubbi sul provvedimento e non piuttosto chi sarebbe stato mosso da una tale intenzione nell’adottarlo.
Va fatta molta attenzione nel muovere rilievi della specie alla condotta degli istituti di credito: per contestazioni e critiche ci sono senz’altro i presupposti, ma non bisogna sbagliare bersaglio perché altrimenti si fa passare nel campo della ragione chi pur presenta diversi torti, a cominciare dall’inadeguatezza, in molti casi, della selezione del merito del credito. Ma se si va a provocare impatti sfavorevoli proprio sul fronte della quantità e della qualità dei prestiti con la norma della quale Visco ha sottolineato il riflesso non favorevole sulla capacità di finanziare l’economia, allora è difficile poi contestare quest’ultima carenza. D’altro canto non bisogna mai dimenticare che gli istituti amministrano denaro dei depositanti, che va tutelato e remunerato e la cosa va oggi ancora più sottolineata in presenza di un notevole deterioramento, per la crisi, della qualità del credito. Naturalmente è del tutto superfluo ricordare questi elementari concetti a persone quali Pier Carlo Padoan che ha trascorso una vita nell’insegnarli e praticarli. (riproduzione riservata)