di Chiara Cantoni
All’onda lunga della crisi, l’Italia risponde a denti stretti, non solo in senso metaforico. Tra il 2007 e il 2012, il numero delle famiglie è cresciuto nel nostro Paese del 6,3%, mentre quelle che hanno sostenuto una spesa per cure odontoiatriche sono calate del 3,31%: circa mezzo milione di famiglie utenti in meno e fatturati in calo del 30% in un settore che occupa complessivamente 250mila persone.
Una previsione poco confortante, supportata dai dati degli ultimi sei anni: la spesa media mensile delle famiglie che hanno pagato per prestazioni odontoiatriche è calata del 28,1% e, nel 2011, l’8,9% dell’intera popolazione nazionale se ne è privato per ragioni di budget (indagini più recenti parlano addirittura del 17%).
Minor reddito, minori consumi, minori fatturati. E il cerchio si chiude. Non fosse che per un unico segno più, in vistoso contrasto con la sfilza di delta negativi: dal 2000 al 2010, la categoria dei dentisti attivi in Italia è cresciuta del 70%, raggiungendo nel 2012 i 58.203 iscritti all’albo, uno ogni 1.042 abitanti, con forti asimmetrie nella distribuzione territoriale. La regione con il maggior numero potenziale di pazienti è la Valle d’Aosta (1.623), seguita da Basilicata (1.406) e Sicilia (1.271); quelle con il minore sono, invece, Liguria (767), Friuli-Venezia Giulia (803) e Marche (851). «Dati molto distanti dal rapporto ottimale di 1 dentista ogni 2 mila utenti auspicato dall’Oms», sottolinea Callioni. «Un problema decennale per la professione, che alimenta il bacino di giovani neolaureati impossibilitati a esercitare in uno studio proprio, molto costoso da aprire anche per i tempi burocratici necessari, dai 6 ai 10 anni almeno.
Alle disomogeneità regionali rilevate nella distribuzione dei dentisti sul territorio, si sommano importanti asimmetrie a livello di produttività, che nel servizio pubblico precipita ad appena tre ore di lavoro al dì contro una media di settore superiore alle sette ore quotidiane, cinque giorni a settimana, 45 settimane l’anno. Il dato trova corrispondenza nella netta preferenza degli italiani per gli studi privati, che garantiscono attualmente oltre il 90% delle cure nel nostro Paese. Ma che devono fare i conti con i fenomeni noti dell’abusivismo e del prestanomismo odontoiatrico, rinvigoriti in tempi di ristrettezze dalle necessità di risparmio e dalla domanda di prestazioni low cost. Una piaga denunciata da tempo dalle associazioni di categoria, che, stando al Rapporto redatto dall’Eures, l’Istituto di ricerche economiche e sociali, in collaborazione con la Cao (Commissione Albo odontoiatri) sotto l’egida del comitato centrale della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri), interessa in Italia 10 mila falsi medici e 7 milioni di prestazioni erogate senza titoli di studio, per un giro d’affari di 720 milioni di euro e un danno erariale di 75 milioni l’anno soltanto a livello di Irpef. I dati dei Nas confermano che il 60% di infrazioni rilevate in sede di ispezione tra il 2006 e il 2012 ricadono proprio nel reato di esercizio abusivo. Con una maggiore incidenza al Nord, dove secondo l’indagine Eures esercita il 48% dei falsi dentisti, seguito dal Sud (30%) e dal Centro Italia (22%).
Il rischio evidente dell’affidarsi a professionisti di dubbia qualifica, assecondando legittime ragioni di risparmio, è quello di tradursi in un boomerang per il proprio benessere e, nel lungo periodo, in un costo maggiore per riparare ai danni di prestazioni scadenti. Già oggi, nonostante il miglioramento complessivo della salute orale registrato fra il 1979 e il 2004, la percentuale di connazionali che dichiara di essere stato dall’odontoiatra negli ultimi 12 mesi (52%) è inferiore, anche se di poco, alla media europea, rivelando una scarsa attitudine degli italiani a rispettare le raccomandazioni dei dentisti. Secondo il Report Andi, infatti, solo il 16% di coloro che non si sono sottoposti a controllo ha addotto ragioni economiche, mentre il 50% semplicemente riteneva di non avere gravi problemi.