di Sergio Luciano
Fa notizia l’insolvenza di pochi grandi nomi – l’ultimo, la griffe calzaturiera Cesare Paciotti – ma è cronaca quotidiana lo stillicidio delle crisi di centinaia di piccole e medie imprese oppresse dai mancati o ritardati pagamenti da parte dei clienti. Secondo i dati di Euler Hermes – la società del gruppo Allianz specializzata, tra l’altro, nell’assicurazione dei crediti – nel 2013 sono state insolventi, in Italia, oltre 13.700 aziende.
Ma non c’è proprio rimedio contro questa specie di epidemia? Non si può prevenire il contagio o curarne i sintomi quando si manifestano? «Lottare, impegnarsi, ridurre i danni è possibile e anzi necessario», dice ai microfoni de La Stanza dei Bottoni, su Class Cnbc, Gianni Amprino, presidente Unirec, l’associazione delle imprese di recupero crediti che rappresenta l’85% degli operatori del settore, circa 200 aziende con 18 mila addetti, che nel 2012 hanno gestito 35 milioni di pratiche per un ammontare complessivo di 43 miliardi di euro di crediti affidati, di cui 9,3 miliardi recuperati. «La percentuale di recupero in valore è oltre il 21%, le pratiche che si concludono con un risultato utile sono il 40%.
E il contenzioso legale? Meglio non contarci, visti i tempi ancora biblici degli esiti. Una sua utilità può invece ancora averla il vecchio strumento del decreto ingiuntivo, grazie a un valore di pressione, che, spiega Andrea Bertola, ceo di Credit Evolution, una delle più attive società di recupero, «va però affiancato a un’attività intensa sul cliente di phone collection, per far capire al moroso che c’è comunque la volontà di chiudere la pratica positivamente e di non troncare i rapporti. Un buon recuperatore non rompe con i clienti ritardatari, li fa pagare ma – se meritano fiducia nel lungo termine e se hanno una storia di serietà all’attivo – li mantiene vicini all’azienda creditrice in attesa di tempi migliori. Lavorando bene e con un po’ di fortuna si possono recuperare i soldi e mantenere i clienti».
Naturalmente il debitore migliore è quello che paga sempre grazie all’intervento di un garante: per esempio una società di factoring, cui ci si può rivolgere solo in alcuni casi, quelli più sicuri, per regolarizzare il flusso degli incassi. «Il factoring è una forma di outsourcing», dice Rony Hamaui, amministratore delegato di Mediofactoring, leader di mercato in Italia. «L’imprenditore delega a una società specializzata tutta la fase dell’incasso. Quando i nostri clienti ci chiedono di lavorare per loro, ne valutiamo il business e, se ci convincono, li finanziamo. Certo, un buon factoring è prevenzione, non cura, degli ammanchi di pagamento. Ma in effetti il rischio dell’insolvenza, anche e soprattutto in tempi difficili come gli attuali, va soprattutto prevenuto scegliendo accuratamente i clienti di cui fidarsi».
«Un ruolo nuovo dobbiamo svolgerlo anche noi delle banche», osserva Oreste Vidoli, capo del dipartimento customer recovery di Unicredit, cioè la divisione che cerca di aiutare i clienti in difficoltà a rimettersi in regola. «Ci chiamiamo customer recovery per questo: non interveniamo contro i clienti in crisi ma al loro fianco, per studiare le possibili ristrutturazioni, le necessarie dilazioni, insomma: per dar loro respiro. Anche perché il perdurare della crisi ha fatto purtroppo nettamente aumentare il numero dei clienti in difficoltà. E i nostri sono interventi concreti, ma anche umani: tante volte una parola di conforto pronunciata al momento giusto può anche prevenire una tragedia».
Un’altra zona grigia di questo fenomeno è costituita dal boom dei concordati di nuova istituzione, quelli introdotti dal governo Monti con l’intenzione di agevolare le imprese in crisi a superare i momenti peggiori. Ma sono frequenti i casi di abuso in cui imprese disinvolte simulano una crisi che non c’è per prendere tempo e congelare per mesi e mesi i loro obblighi. Infatti nella maggior parte dei casi i concordati prenotati si risolvono in revoche», spiega l’avvocato Andrea Arnaldi, specializzato tra l’altro in questo genere di procedure. «Qualche responsabilità di questo malcostume va data al dettaglio di una norma che aveva uno spirito ben diverso». Il recente decreto del fare ha introdotto alcune modifiche al concordato tenendo conto dell’esperienza non ottimale degli ultimi mesi. (riproduzione riservata)