di Giuseppe di Vittorio
La Tobin tax, l’aumento straordinario dell’aliquota Ires, il maxi bollo sulle comunicazioni finanziarie, il debutto dell’acconto sui capital gain, il maxi anticipo su Irap e imposta sui redditi delle società. Le imprese di investimento sono alle corde. Lo stile istituzionale dell’Assosim, l’associazione degli intermediari finanziari, non permette manifestazioni di dissenso plateali ma il messaggio che arriva all’esecutivo e il grido di allarme è molto chiaro «Non vogliamo morire di tasse».
Eppure si tratta di imposte che gravano in alcuni casi sui clienti degli intermediari finanziari. «L’eccessivo carico fiscale disincentiva il risparmio e l’investimento», rimarca subito Michele Calzolari, presidente del sodalizio, «e alla fine oltre ai cittadini a pagare indirettamente sono le imprese attive nel settore». Non è solo una questione di aliquote ma anche di incombenze: calcolare, dichiarare e versare le imposte comporta una serie di costi al di là del carico fiscale. Le basi imponibili sono spesso composte di centinaia di migliaia di operazioni su milioni di clienti e solo software e potenti algoritmi possono calcolare l’esatto dovuto all’erario. Molti intermediari stranieri si tengono lontani oramai da tutto ciò che riguarda la finanza italiana proprio per evitare simili incombenze al di là dell’entità dell’onere tributario.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’acconto sul capital gain. Una misura introdotta dal governo poche settimane prima della fine dell’anno. Gli intermediari hanno dovuto capire, liquidare e versare l’imposta nello spazio di pochissimi giorni. Nella sostanza è stato anticipato al 2013 quanto doveva essere pagato forse nel corso del 2014. La misura ha aperto una serie di questioni economiche e procedurali. Molte piccole sim hanno avuto difficoltà a reperire le risorse necessarie. Alcuni milioni, non noccioline. Si è aperta poi in dottrina un dibattito sulla possibilità o meno dell’intermediario di farsi carico dell’imposta e di addebitarla successivamente al cliente nel corso del prossimo anno. La tassa è infatti formalmente a carico del cliente. In linea generale sono le imprese che si sono fatte carico dell’anticipo anche perché non è detto che il cliente abbia sul conto i soldi per pagare l’imposta. E poi dove è scritto che gli investitori riescano a guadagnare nel 2014 le stesse cifre del 2013?
L’acconto sul capital gain non è stato l’unico aggravio di spesa. La misura è stata accompagnata dai maxi acconti su Ires e Irap del 2013 portati al 128,5%. A proposito di Irap è arrivato l’aumento straordinario dell’aliquota Ires, a valere solo per un anno. L’aliquota è salita di 8,5 punti percentuali al 36 dal 27,5%, una crescita del 30% circa. Senza tenere conto, come detto, dell’aumento dell’imposta di bollo sulle comunicazioni finanziarie da applicare ai clienti al 2 per mille e della Tobin.
Il 2013 è stato l’anno dell’introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie, un’imposta che sfiora il gettito negativo e che contribuisce a danni di immagine del tessuto finanziario tricolore. L’Italia è l’unico Paese al mondo ad avere un’imposta sui derivati e il solo ad applicarla in Europa sulle azioni insieme a Francia e Ungheria. La Gran Bretagna ha un’imposta simile ma gli scambi azionari passano attraverso i cfd (esenti) e gli aderenti al mercato non pagano la tassa.
E poi il fisco è sempre più un ginepraio inestricabile. Nel corso del tempo si stanno stratificando vari interventi fiscali anche in sovrapposizione e in simultanea fra loro. «A questo punto sarebbe quanto meno necessario un riordino e una semplificazione», ha indicato Calzolari. Gli adempimenti tributari sottraggono energie e risorse. Zavorrare le imprese italiane vuol dire favorire implicitamente quelle estere. E il settore finanziario è uno dei più esposti alla concorrenza internazionale perché non c’è nulla di più mobile e globale degli investimenti.
Se lo Stato volesse maggiore gettito dall’industria finanziaria ci sarebbe una via virtuosa: promuovere la sua crescita. Una maggiore redditività per le imprese di investimento darebbe maggiori garanzie di crescita del gettito.
Par amor di cronaca va ricordato che il governo qualche misura parzialmente compensativa l’ha introdotta. La rivalutazione delle partecipazioni in Bankitalia e la possibilità di spalmare fiscalmente le svalutazioni dei crediti in tempi più brevi (cinque anni invece che diciotto) vanno in questo senso. Si tratta di provvedimenti che riguardano però l’attività tradizionale delle banche e non le imprese attive sui mercati finanziari.
L’appello degli intermediari finanziari potrebbe anche cadere nel vuoto. C’è la consapevolezza all’interno dell’industria degli investimenti della difficoltà a farsi ascoltare. Banche e sim non rappresentano quantitativamente un chiaro bacino elettorale e difficilmente risparmiatori, gestori, trader, personale delle imprese di investimento scenderanno in piazza. Mentre per l’opinione pubblica tassare gli intermediari non è un problema, semmai la soluzione e il giusto castigo. Una strategia che può forse pagare sul breve ma che sul lungo è suicida per un Paese. Il sistema finanziario è una cinghia di trasmissione economica vitale la cui rottura potrebbe destabilizzare produttività ed economia. C’è una significativa riduzione di scambi sui titoli finanziari sia sui mercati regolamentati sia – e soprattutto – sull’otc (over the counter). Gli addetti dell’industria finanziaria sono stimati in 350 mila ma nel corso del 2013 hanno già chiuso otto sim,
L’idea di fare cassa puntando sui redditi finanziari sta facendo i conti comunque con la realtà. Irpef, e Iva hanno gettiti fino a 400 volte più alti delle entrate da capital gain o dalla Tobin. «Ad ogni modo», conclude Calzolari, «il settore finanziario e il risparmio rimangono strategici per il Paese». Il risparmio privato è stato l’unico baluardo alla solidità patrimoniale italiana nel periodo più acuto della crisi finanziaria. Ecco perché una politica ostile all’industria finanziaria finirebbe per essere travolta dalla stessa. (riproduzione riservata)