di Andrea di Biase
Il 2013 sarà ricordato a Piazza Affari per la fine dei patti di sindacato e lo scioglimento dei legami azionari che, ancora nell’ultimo decennio, avevano caratterizzato il capitalismo finanziario italiano. Da Pirelli a Telecom Italia, da Rcs Mediagroup a Gemina (oggi incorporata in Atlantia), la svolta impressa dalla dirigenza di Mediobanca, un po’ per convinzione e un po’ per necessità, e sulla quale c’è stata la convergenza anche degli altri soggetti tradizionalmente legati a Piazzetta Cuccia ha riguardato gran parte delle principali società quotate a Piazza Affari, comprese la stessa banca d’affari, il cui sindacato di controllo, pur rimanendo tuttora in essere, è sceso al 30%, e le Generali, che pur non essendo da tempo governate da un patto sono state per anni al centro di quel sistema di partecipazioni incrociate reso anacronistico dalla globalizzazione dei mercati e dal nuovo quadro normativo (a partire dalla legge sull’interlocking directorship e dalle regole sul capitale bancario di Basilea 3).
Ma se l’anno che si va a chiudere ha visto la celebrazione, anche da parte di uno degli astri nascenti della politica italiana come il neosegretario del Pd Matteo Renzi, della fine del capitalismo di relazione, il 2014 si apre con un interrogativo cui nessuno è ancora riuscito a dare una risposta convincente, non solo dal punto di vista teorico ma soprattutto da quello pratico: quali assetti proprietari dare ai grandi gruppi italiani quotati dopo la fine dei patti? Il vecchio sistema, organizzato nel Secondo Dopoguerra dalla Mediobanca di Enrico Cuccia per salvaguardare il capitalismo privato italiano dalle ingerenze dello Stato padrone e consentire alle grandi famiglie di comandare senza grandi apporti di capitale, aveva permesso, anche a costo di palesi distorsioni delle regole del mercato, di mantenere in Italia il controllo di importanti gruppi industriali e finanziari, ma non era stato capace di favorire crescita dimensionale e internaziolizzazione.
La public company, ovvero l’azionariato diffuso nell’ambito di un mercato dei capitali efficiente, capace di favorire la selezione di un management capace, il ricambio dei vertici aziendali meno adeguati e garantire allo stesso tempo la tutela delle minoranze, rischia di rimanere una chimera in assenza di un quadro normativo adeguato e di investitori istituzionali capaci di recitare al meglio il loro ruolo.
Più sfumata invece la posizione di Carlo Pesenti, direttore generale di Italmobiliare, la holding cui fa capo il controllo di Italcementi e un tempo cardine di quel sistema di partecipazioni incrociate costruito negli anni dalla Mediobanca di Cuccia. In un’intervista rilasciata a ottobre il figlio dell’ex presidente del sindacato azionario di Rcs si esprimeva così sul futuro dei patti e sulle prospettive dopo il loro superamento: «Certo che si può vivere senza patti di sindacato. Tuttavia bisogna che il Paese e la classe dirigente stabiliscano quali sono le attività e le priorità in termini di interessi generali: quali sono i settori che un Paese deve preservare, con quali aziende, e quali assetti, al di là dei patti di sindacato, devono avere queste aziende. Se così non fosse, saremmo solo terra di conquista in nome del mercato, ma come si è dimostrato anche nel recente passato il mercato non è perfetto». Di qui anche l’atteggiamento pragmatico con cui nei mesi scorsi i Pesenti hanno affrontato il rinnovo del patto Mediobanca. Allora Italmobiliare, forte di un 2,6%, decise di svincolare dal sindacato solo un pacchetto dell’1%. Se infatti la holding fosse uscita completamente dall’accordo, il patto, a fronte delle disdette arrivate anche da Fondiaria-Sai, Generali e Groupama, sarebbe sceso sotto la soglia del 30% e, per le regole interne all’accordo, sarebbe diventato inefficace lasciando la banca d’affari e la sua principale partecipazione, ossia le Generali, senza un nucleo di azionisti di riferimento legati da impegni reciproci formalizzati. Avrebbe potuto essere un bene? Forse. Tuttavia gli stessi grandi azionisti diMediobanca hanno ritenuto che uno scenario del genere avrebbe potuto destabilizzare eccessivamente ciò che rimane del salotto buono. Non per niente Unicredit, primo azionista di Mediobanca con l’8,7%, per voce dell’amministratore delegato Federico Ghizzoni ha subito provveduto a rassicurare sulla stabilità dell’investimento. «I patti non vanno né esaltati né demonizzati», aveva sottolineato Ghizzoni all’indomani del rinnovo del sindacato di Piazzetta Cuccia. «Noi ci siamo perché per noi Mediobanca è un investimento strategico e ci convince il piano industriale che prevede meno attività di holding di partecipazioni e più attività bancaria». Ma proprio in base a questo principio nei mesi a venire Mediobanca, oltre a valorizzare sul mercato le partecipazioni detenute in Rcs, Telecom e gli altri investimenti in equity, procederà anche a ridurre il peso nell’azionariato delle Generali dall’attuale 13,2% al 10% circa. Un alleggerimento che potrebbe avvenire contestualmente alla vendita del 4% del Leone appartenuto alla Banca d’Italia e oggi custodito dal Fondo Strategico Italiano.
Nei prossimi mesi, dunque, il tema degli assetti proprietari delle Generali potrebbe tornare a essere tema di forte attualità. Da un lato, infatti, potrebbe emergere l’opportunità di individuare nuovi investitori italiani che affianchino Mediobanca e gli altri grandi soci (Del Vecchio, De Agostini e Caltagirone) nel capitale del Leone (è stato fatto il nome dell’Exordella famiglia Agnelli-Elkann, che ha però finora escluso categoricamente questa eventualità). Dall’altro lato, con Bolloré pronto a salire all’8% di Piazzetta Cuccia e a introdurre nel sindacato un altro socio estero forte di un 3% circa, la revisione in corso delle regole di governance di Mediobanca potrebbe assumere importanza rilevante anche sugli equilibri a Trieste. Anche se, almeno per il momento, non sembrano soffiare, come nel 2003, i venti di guerra di una scalata ostile. (riproduzione riservata)