Ai sensi dell’art. 28 della Legge notarile, il divieto per il notaio di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, comprende solo atti la cui nullità sia inequivoca, con conseguente esclusione degli atti solo inefficaci rispetto al soggetto nel cui nome (e conto) siano redatti; pertanto non è possibile giungere a diverse conclusioni valutando unitariamente una serie di atti alla luce della unitarietà dello scopo illecito, assumendo come possibile una lettura congiunta degli artt. 28 e 147 della stessa legge.
A sostenerlo è stata la Corte di cassazione con la sentenza n. 25408 del 12 novembre scorso, in cui ha affrontato il tema della responsabilità disciplinare del notaio.
I giudice hanno osservato come: «negli ultimi anni, con plurime decisioni, la Corte, pronunciandosi su fattispecie nelle quali era in questione la nullità delle clausole compromissorie inserite in statuti societari, in violazione dell’art. 34 del dlgs 17 gennaio 2003, n. 5, ha fatto concreta applicazione del principio della necessaria inequivocità della nullità, affermando che «Il divieto per il notaio di ricevere atti nulli sussiste solo quando la nullità dell’atto sia inequivoca e indiscutibile, dovendosi intendere l’avverbio espressamente, che nell’art. 28 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 qualifica la categoria degli atti proibiti dalla legge, come inequivocamente; pertanto, tale divieto si riferisce a contrasti dell’atto con la legge che risultino in termini inequivoci, anche se la sanzione della nullità deriva solo attraverso la disposizione generale dell’art. 1418, primo comma, cod. civ., per effetto di un consolidato orientamento interpretativo giurisprudenziale o dottrinale». (Cass. 11 marzo 2011, n. 5913; Cass. 20 luglio 2011, n. 15892; Cass. 13 ottobre 2011, n. 21202, nelle quali ultime si da rilievo anche alla decorrenza della non equivocità)».
Nell’ordinamento si è andato progressivamente affermando il principio della necessaria tipizzazione degli illeciti disciplinari, quale attuazione estensiva del principio di legalità, tutelato dalla Costituzione espressamente (art. 25 Cost.) in riferimento alla confinante materia penale (in materia lavoristica, Cass. 23 agosto 2006, n. 18377; Cass. 18 giugno 1996, n. 5583). Principio che – osservano gli Ermellini – si pone quale necessario complemento alla attuazione del diritto di difesa (art. 24), che sarebbe vanificato, o quantomeno largamente svuotato di contenuto, se le condotte punibili attribuibili al soggetto al quale si assicura la difesa nel procedimento giurisdizionale (e nel procedimento amministrativo) non fossero ex ante precisamente individuate dal legislatore.
Pertanto osservano i giudici che «pur essendo a forma libera la condotta, il suo contenuto, sebbene non tipizzato, è integrato dalle regole di etica professionale e, quindi, dal complesso dei principi di deontologia oggettivamente enucleali dal comune sentire di un dato momento storico (da ultimo, Cass. 23 marzo 2012, n. 4720)».
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