Il 15 settembre del 2008 Lehman Brothers dichiarava default, agendo da spartitraffico nell’era finanziaria moderna: veniva meno la convinzione diffusa che una grande banca non sarebbe mai fallita, crollava l’affidabilità delle grandi agenzie di rating e prendeva il via una stagione di fallimenti a catena per le aziende di tutto il mondo, che avrebbe presto messo a dura prova anche la tenuta dei debiti statali. Cinque anni dopo molto è cambiato sul fronte delle regole, dei rischi assunti e del coordinamento internazionale, tanto che la possibilità di una nuova crisi sistemica appare molto remota, anche se non mancano i fattori di instabilità.
Wall Street rivede i massimi. Gli Stati Uniti, epicentro della grande crisi mondiale con lo scoppio della bolla legata ai mutui subprime già nel 2007, sembrano essersi messi alle spalle quella stagione. Grazie soprattutto all’intervento della banca centrale, nel sistema finanziario è stata immessa un’enorme liquidità, che ha consentito di tenere bassi i costi di finanziamento e favorire gli investimenti sugli asset più rischiosi. Il risultato è stata una rapida risalita dal crollo del 2007-2008, tanto che nelle scorse settimane Wall Street ha toccato nuovi massimi storici. Non che i problemi siano del tutto superati, considerato che proprio la prospettiva di riduzione dello stimolo monetario (oggi la Fed inietta nel sistema circa 85 miliardi di dollari al mese) ha creato turbolenze nei listini finanziari, mentre l’economia reale mostra luci e ombre: il pil è tornato a crescere al ritmo del 2% grazie soprattutto alla ripresa del mercato immobiliare, mentre l’occupazione continua a soffrire.
L’Eurozona fatica a rialzare la testa. Diverso è il discorso nell’Eurozona, che resta sulla soglia di una nuova recessione, soprattutto per la debolezza dei paesi periferici, come Spagna e Italia. La crisi post Lehman nel Vecchio continente si è spinta fino a far dubitare della tenuta del debito pubblico di questi paesi, nonché della sopravvivenza dell’euro. Così tutti i paesi dell’euro (pur con accenti diversi) hanno messo a punto politiche di austerity che le aiutassero a limitare la crescita del debito pubblico, con la conseguenza tuttavia di penalizzare la crescita. In sostanza, è tornato sotto controllo il nominatore del rapporto debito/pil, ma nel frattempo si è indebolito ulteriormente il denominatore. In Italia la ricchezza prodotta nell’anno in corso dovrebbe essere del 2% inferiore a quella del 2012, che a sua volta era risultata in calo del 2,4% nel confronto con il 2011. L’auspicio è che la strada della ripresa venga imboccata a partire dall’ultimo trimestre di quest’anno, per poi rafforzarsi nel 2014, anche se le ultime stime (+0,8% per il prossimo anno) non lasciano sperare in una svolta vera. Il bilancio di questi anni indica che quasi un decimo della ricchezza italiana è andata in fumo (tornando ai livelli del 2001), senza considerare l’effetto impoverimento creato dall’inflazione. Tutto questo mentre la produzione industriale e il reddito disponibile delle famiglie sono sui livelli di 25 anni fa.
Date queste condizioni il rischio è che l’Eurozona si avvii verso una fase di stagnazione per diversi lustri, come accaduto al Giappone dagli anni 90 in avanti.
La lezione giapponese. Il nuovo governo Abe ha impostato una politica ultraespansionistica finalizzata a ridurre il valore dello yen e immettere liquidità nell’economia reale, in modo da rilanciare l’export e i consumi. I primi risultati cominciano a vedersi, tanto che il pil è cresciuto del 3,8% annualizzato nel primo trimestre e del 2,6% nel secondo. Il mondo della finanza confida nel proseguimento del trend ascendente, tanto che il Nikkei ha guadagnato quasi il 40% da inizio anno. Dati che impongono una riflessione al Vecchio continente, a maggior ragione se si considera che queste scelte coraggiose di politica economica e monetaria sono state assunte da un paese che ha il record assoluto nel rapporto tra debito e pil: oltre il 230%, ben più del 130% italiano, che pure allarma tanti analisti. È pur vero, però, che quasi tutto il debito pubblico giapponese è in mano ai risparmiatori del paese, che tradizionalmente tendono a rinnovare l’impegno a ogni scadenza, assicurando così stabilità. Mentre in Italia oltre il 40% è in mano a grandi investitori esteri, che durante i picchi della crisi non hanno esitato a ritirare i soldi dal tavolo, contribuendo così ad amplificare la crisi.