Sì alla condanna dei danni per l’istituto di credito che all’interno di un procedimento giurisdizionale divulga i dati personali del giudice di primo grado al fine di screditare una sentenza da lui emessa contro la banca. La condanna della banca si fonda sulla condotta ingiustificata tenuta dalla stessa, in quanto ha violato il diritto alla riservatezza e alla reputazione del giudice di primo grado. La violazione di un diritto costituzionalmente garantito comporta l’obbligo conseguente di risarcire il danno morale. La quantificazione del danno morale deve essere necessariamente effettuata ricorrendo al criterio equitativo. Il giudice di merito nella determinazione del danno morale in via equitativa deve tenere conto di tutte circostanze oggettive e soggettive idonee ad adeguare l’indennizzo al caso concreto. E in particolare, nel caso di trattamento dei dati personali non autorizzati, deve considerare l’eventuale diffusione dei medesimi e il dato di diffusione. Questo è quanto stabilisce la Corte di cassazione – sezione III civile – con sentenza 28 agosto 2013 n. 19790. Il fatto concreto: «La banca aveva riferito i termini della controversia precedentemente avuta con il giudice di primo grado, rivelando circostante inerenti la sua vita privata, conosciute per ragioni professionali, senza il consenso dell’interessato, violando così il dlgs n. 196/2003. L’istituto di credito venne in seguito a ciò condannato a pagare 30 mila euro a titolo di risarcimento. I giudici di cassazione condividono la posizione del giudici di merito secondo il quale «la diffusione dei dati nell’atto di appello non era funzionale alla difesa tecno–giuridica della banca, ma era volta unicamente a screditare davanti ai giudici di appello, il giudice che aveva pronunciato la sentenza di condanna». Gli ermellini ricordano che è possibile utilizzare i dati personali in sede giudiziale. Si tratta di una diffusione lecita anche senza il consenso dell’interessato purché i dati vengano utilizzati per difendere i propri diritti e per il tempo strettamente necessario al loro perseguimento, trattandosi di un diritto costituzionalmente tutelato. Ma tutte le sentenze che si sono pronunciate nel senso indicato hanno preso in considerazione la diffusione di dati personali della controparte dell’utilizzatore. Mentre nel caso di specie i dati personali diffusi riguardavano il giudice che aveva pronunciato la sentenza impugnata e miravano non a far valere un proprio diritto, ma unicamente a screditare il suddetto e, quindi, la sua sentenza». Pertanto il danno morale non può che essere liquidato equitativamente dal giudice di merito.
Cinzia De Stefanis