Pagina a cura di Giuseppe Di Vittorio  

Più passa il tempo è più si riduce il gettito atteso dalla tassa sulle transazioni finanziarie. In base alle ultime proiezioni che ItaliaOggi è in grado di fare, la somma sarà vicina ai 300 milioni di euro, a fronte di incassi preventivati nel bilancio dello stato pari a un miliardo di euro. La cosa più grave è che un terzo dei 300 milioni previsti è di dubbia riscossione. Questa parte della tassa sarebbe, infatti, a carico degli operatori presenti all’estero. Da non dimenticare che gli intermediari d’oltre frontiera, incaricati della riscossione per conto dello stato, per regolare la loro posizione con il fisco dovrebbero perfino recarsi in ambasciata a chiedere il codice fiscale. Non è sufficiente quindi pagare, ma occorre adempiere a una procedura un po’ troppo farraginosa (anche perché non è detto che ci sia una ambasciata o una sede consolare in prossimità della sede del broker). In alternativa si potrebbe nominare un responsabile fiscale in Italia, ma in questo caso ai costi fiscali andrebbero aggiunti quelli amministrativi.

Costi, problemi e rischi di sanzioni a fronte di nessun valore aggiunto. Basti pensare che i titoli italiani si muovono correlati di norma a quelli delle altre azioni europee. E verrebbe da chiedersi perché un operatore dovrebbe lavorare su titoli dove si paga l’imposta quando in tutto il mondo escluso Francia e Ungheria le azioni sono esenti da imposta.

A fronte di 300 milioni di euro di gettito c’è, quindi, un bilancio pesantissimo sulla fuga dei capitali. All’appello mancano scambi complessivi per almeno 332 miliardi di euro. Il buco più grosso è sulle transazioni al di fuori dei mercati regolamentati. L’anno passato le operazioni fuori mercato erano vicine ai 324 miliardi di euro, quest’anno si arriverà grosso modo a 52 miliardi di euro. Il calo è vicino all’85%. Il governo aveva stimato questa base imponibile a 416 miliardi di euro al lordo delle operazioni esenti. Le operazioni aperte e chiuse in giornata e quelle poste in essere dai market maker sono, infatti, escluse dall’imposta. I market maker sono coloro deputati sui mercati a fornire liquidità, nella sostanza sono pronti in qualsiasi momento a diventare venditori per chi vuole comprare e a essere compratori per chi vuole vendere. In cambio di questo impegno hanno dei vantaggi sotto il profilo dei costi di negoziazione e con l’introduzione della Tobin anche benefici fiscali.

Tornando al crollo delle transazioni al di fuori dei mercati regolamentati si pongono tre ordini di problemi: uno di ordine tributario, l’altro economico, il terzo finanziario.

Per quanto riguarda gli aspetti di carattere tributario il 70% del gettito complessivo, circa 700 milioni di euro, doveva arrivare proprio da queste operazioni, una caduta di questo tipo manda per aria buona parte dell’incasso complessivo dello stato.

C’è poi un problema economico: secondo i principi fondamentali dell’economia un mercato meno liquido e con un numero più limitato di partecipanti è più esposto a turbolenze e manipolazioni. Una conclusione esattamente contraria agli obiettivi di coloro che hanno sostenuto l’introduzione dell’imposta.

Il terzo problema è relativo alla strutturazione della tassa. L’idea di tassare gli strumenti (le azioni italiane e i loro derivati) invece che la residenza di coloro che perfezionavano l’imposta era nata per evitare fenomeni elusivi. Le banche italiane potevano tranquillamente trasferire all’estero l’operatività e gli operatori d’oltre confine non avrebbero pagato.

I cali nella base imponibile (gli scambi) sui mercati non regolamentati dimostrano che a pagare alla fine saranno solo gli italiani. L’85% delle transazioni fuori dai mercati tradizionali avviene infatti all’estero.

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