Obbligare fondi, assicurazioni e casse previdenziali a investire una piccola parte del loro portafoglio in piccole e medie imprese italiane. Un vincolo morale che potrà consentire alle pmi di accedere a nuove forme di finanziamento, da aggiungere a quelle del sistema bancario tradizionale alle prese con il credit crunch, e di conseguenza permettere all’Italia di riprendere a crescere.
Lo ha lasciato intendere l’Ivass, che vigila sulle compagnie assicurative, nella sua ultima relazione annuale: «Per le nostre assicurazioni, investitori dalla veduta lunga, giocare un maggior ruolo nel finanziamento all’economia, in particolare negli investimenti di lungo periodo e nella capitalizzazione delle imprese, vorrà dire mutare la composizione dei propri attivi a favore di strumenti privati, di cui sarà più complesso valutare la rischiosità», ha ricordato il presidente dell’Authority, Salvatore Rossi. Sottolineando al contempo l’esigenza di creare «idonei presidi organizzativi». Perché l’investimento in pmi potrebbe aumentare i rischi considerando che implicherebbe l’acquisto in strumenti non quotati. Anche se l’afflusso del denaro alle imprese avverrebbe attraverso la sottoscrizione di un fondo comune specializzato nell’acquisito di mini-bond, obbligazioni o cambiali finanziarie di pmi e questo garantirebbe quantomeno la diversificazione. A spronare i gestori di patrimoni a investire in pmi è stato del resto anche l’ex ministro dell’Economia e presidente di Assogestioni Domenico Siniscalco, che ha invitato fondi e assicurazioni ad aumentare la quota di patrimonio indirizzata verso strumenti non quotati di pmi, come del resto è già consentito dai regolamenti. La proposta di Crovetto va però ben oltre perché prevede un percorso di graduale vincolo del portafoglio di tutti gli investitori istituzionali, pari all’1% all’anno, per arrivare al traguardo del 5%, da raggiungere in cinque anni. Il che implicherebbe la mobilitazione di un capitale di tutto rispetto, circa 60 miliardi, considerando che il patrimonio gestito da fondi pensione, assicurazioni, casse previdenziali e fondi comuni è pari oggi a 1.200 miliardi. Denari che dovrebbero confluire, almeno in parte, verso fondi specializzati in pmi, ha proposto il direttore generale di Banca Finnat, e che consentirebbero al risparmio delle famiglie di arrivare al cuore produttivo dell’Italia. «Si tratterebbe di un vincolo di portafoglio morale al risparmio nazionale», ha dichiarato Crovetto. «Bisogna creare un circolo virtuoso. In ballo ci sono posti di lavoro. Se riprenderanno a crescere aumenterà anche il risparmio bloccando quel meccanismo pericoloso, provocato dalla crisi, che negli ultimi mesi ha fatto registrare, per esempio, il calo dei versamenti dei lavoratori nei fondi pensione».
Ma bisognerà verificare la disponibilità dell’industria a sentirsi obbligata all’investimento. Gli assicuratori, del resto, hanno già iniziato a frenare e nella loro recente assemblea annuale hanno rese pubbliche le loro condizioni, pur non tirandosi indietro davanti alla chiamata nazionale. Per quanto riguarda gli investimenti in pmi, l’Ania ha chiesto, per esempio, una compartecipazione di primo rischio della banca o della società di rating incaricata di seguire l’emissione di obbligazioni. Insomma le assicurazioni sono pronte a muoversi e già oggi potrebbero in teoria investire in strumenti non quotati 15 dei 300 miliardi complessivi, ma vogliono ridurre al minimo il rischio e chiedono anche al governo di incentivare fiscalmente i risparmiatori intenzionati a investire a medio-lungo termine.
L’imposizione di una soglia minima d’investimento non piace neppure a Paolo Gualtieri, professore all’università Cattolica e ascoltato consulente di banche, sgr e assicurazioni. «Un’impostazione dirigista rischierebbe di fare danni al Paese. Serve invece creare i presupposti per rendere interessante e profittevole l’investimento in fondi specializzati in pmi», dice Gualtieri, che sottolinea però la necessità di favorire la disintermediazione del sistema bancario che in Italia è oggi di fatto la sola fonte di accesso ai finanziamenti per le pmi a differenza di quanto avviene in altri Paesi. «Negli Usa nel 1950 le imprese ottenevano dalla banche circa il 75% dei finanziamenti», dice Gualtieri. «Una soglia scesa oggi al 33%». Insomma, c’è un divario enorme da colmare, considerando per esempio che altri strumenti, come il private equity, hanno in Italia un ruolo residuale e le emissioni di bond sono state finora esclusiva dei grandi gruppi. (riproduzione riservata)