La Mediobanca di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi non si è mai data piani strategici, non ne ha mai avuto o sentito il bisogno. Ma obiettivi strategici ne ha sempre avuti, ben chiari. Il primo e più importante è stato costruire, mantenere, consolidare l’autonomia del top management dai soci, fin da quando il controllo apparteneva alle Bin dell’Iri, cioè allo Stato. Un secondo obiettivo, connesso e conseguente, è stato quello di mettere l’istituto nella migliore condizione per far leva sugli azionisti, via via più numerosi e diversificati, su due versanti: le banche partner dovevano provvedere alla raccolta mediante il collocamento «obbligatorio» di titoli emessi da Via Filodrammatici a medio-lungo termine; i soci industriali (da Fiat a Pirelli, da Olivetti a Montedison, fino alle «nuove leve») erano il «portafoglio-clienti» di base per lo sviluppo del core business: la finanza d’impresa, il credito industriale, la gestione di aumenti di capitale e prestiti obbligazionari, il grande private equity, l’m&a advisory di alta fascia. La creazione di valore per gli azionisti (dividendo e valore del titolo in Borsa) non è mai stata una priorità; così come i coefficienti patrimoniali che, grazie anche all’accumulo di parte dell’utile, ha sempre tenuto Mediobanca lontana da ogni indispensabilità di apporti di capitale.
Può essere interessante, anche se certamente opinabile, traguardare su questo schema storico il «masterplan» annunciato la scorsa settimana da Mediobanca, con target e direttrici aggiornate al triennio 2014-2016. Non c’è dubbio che i due top manager in carica (il presidente Renato Pagliaro e l’amministratore delegato Alberto Nagel, «terza generazione» di Cuccia e Maranghi, continuino a perseguire la propria indipendenza: quanto meno il perimetro «di resistenza a oltranza» di Piazzetta Cuccia; la trincea contro le ipotesi aggressive di break-up e/o di aggregazione che da anni sono ricorrenti nei rumor finanziari e che lo resteranno. In concreto: la decisione (tattica) non considerare più «strategiche» le partecipazioni in Telco-Telecom e Rcs suona come un segnale rinunciatario, di disimpegno di Piazzetta Cuccia dal suo scacchiere tradizionale e privilegiato, almeno per il momento. Sarà stato pur vero che Cuccia (ex giovane giornalista) sconsigliava l’investimento nei giornali, ma pur di avere il controllo del Corriere, dopo il crack Ambrosiano, fece di tutto e di più.
Quasi quanto il suo giovane manager Matteo Arpe, nel ’99, per far vincere l’Opa Telecom a Roberto Colannino, Massimo D’Alema e alle grandi banche di Wall Street (dove lo stesso Cuccia aveva seminato ancora prima del 1945). Ora invece Pagliaro e Nagel paiono voltare la testa dall’altra parte: certo a malincuore, ma evidentemente non è possibile far diversamente. Il «corporate & investment banking» di Mediobanca (così viene appropriatamente qualificato nel piano) non può più occuparsi delle proprie partecipate in Italia: salvo fissare come «linea del Piave» il mantenimento di una quota maggioritaria in Generali, ma solo dopo aver lasciato al nuovo Ceo Mario Greco carta bianca per eliminare scientificamente tutto il management team triestino di stretta osservanza Mediobanca (ultima vittima delle esecuzioni sommarie è il stato capo delle gestioni Luca Passoni). Il segmento Cib (dice un piano che non deve disturbare alcun manovratore) potrà però rifarsi «all’estero»: anche se i precedenti recenti non sono confortanti (dall’acquisto delle fallimentari attività spagnole di Rcs, ai fantasmagorici report della londinese Mediobanca Securities su temi »di mercato» quali Fondazioni bancarie e Rai). È comunque evidente che Mediobanca deve tenersi per ora a distanza di braccio, anche per ragioni giudiziarie, da molti dossier domestici un tempo «di famiglia», come FonSai o Pirelli. Mentre di altri masterplan recenti è bene si dimentichino guidelines come il «boost» al leasing immobiliare e industriale: finanziò tra gli altri Coppola e Zunino, per una breve stagione anche azionisti di Mediobanca.
Ma non sfugge l’insistenza sullo sviluppo delle attività retail per linee interne: pur con la presa d’atto dell’impasse di CheBanca, marcata dal cambio del Ceo. A tredici anni (domani) dalla morte di Cuccia e a dieci dalla defenestrazione di Maranghi, il problema del «funding» strutturale di Mediobanca non è risolto: ma Pagliaro e Nagel non possono non tener duro sull’autonomia del gruppo. Un solo attimo d’incertezza riaprirebbe probabilmente varchi alle ipotesi di «fusione annunciata» da anni con UniCredit (nel cui azionariato sono presenti le Fondazioni CariVerona e Crt, i gruppi Della Valle e Caltagirone); non senza prevedibili reazioni dell’arcipelago Intesa Sanpaolo: il quale peraltro di banche d’affari ne ha ormai virtualmente due, l’Imi e la Cassa depositi prestiti («la nuova Iri»_).
Non sorprende, in ogni caso, che il vertice Mediobanca, sia preoccupato del mercato e dei suoi investitori, degli analisti e delle attese di remunerazione: tutto ormai puo’ essere usato contro un management che un tempo poteva consentirsi tutto ed era il banchiere d’affari unico del governo. A proposito: un colpo d’ala come la costruzione di una soluzione per l’Ilva? Mediobanca non è più capace di mettere assieme un «capitalista di Stato» cinese con un fondo sovrano mediorientale e un siderurgico italiano? Perfino Enrico Letta ha spedito Enrico Bondi a Taranto con questa speranza implicita. Che Piazzetta Cuccia voglia dare impulso alla sua divisione «wealth management» con iniziative negli «alternative investments» importa francamente poco o nulla. Perfino la McKinsey la inviterebbe a non autosospendersi dalla sua «corporate identity».