di Andrea Di Biase

Sempre più banca, con una spiccata vocazione internazionale, e sempre meno holding di partecipazioni. La strategia impostata da Alberto Nagel da quando nel 2003 ha assunto la guida operativa di Mediobanca e perseguita in questi anni solo in parte, anche alla luce delle resistenze di una parte dei grandi soci a rinunciare alla presa sulle partecipazioni stabili (prima solo Generali e Rcs e a partire dal 2007 ancheTelecom Italia) e all’influenza che da queste derivava, potrebbe finalmente trovare compimento.

Giovedì 20 giugno il consiglio di amministrazione di Piazzetta Cuccia sarà chiamato a esaminare e approvare il nuovo piano strategico della banca d’affari, il terzo, dopo quelli del 2004 e del 2008, messo a punto da Nagel e dai suoi collaboratori, che il giorno successivo sarà presentato alla comunità finanziaria. Un piano di sviluppo e non di ristrutturazione, come sostengono in Piazzetta Cuccia, che punta proprio a mettere fine alla Mediobanca dalle due anime (da un lato banca d’affari e dall’altro holding) attraverso una progressiva cessione delle partecipazioni, comprese quelle strategiche, facendone un gruppo bancario paneuropeo concentrato sul corporate & investment banking, sul private banking di Banca Esperia e Compagnie Monégasque de Banque, e con l’accoppiata Compass-CheBanca! funzionale a stabilizzare i ricavi della banca d’investimento.

 Se realizzata nei fatti, potrebbe dunque trattarsi di una svolta epocale per Piazzetta Cuccia, che ancora oggi, alla luce delle partecipazioni strategiche detenute in Generali(13,2%), Rcs Mediagroup (14,3%) e Telco (11,6%), ma anche di quelle stabili in Pirelli(4,49%), Gemina (12,5%), Italmobiliare (9,5%) e Sintonia (5,9%), continua pur sempre a essere un piccolo sole al centro di una galassia ormai in via di disgregazione.

Ma se nel passato, anche in quello recente, i legami partecipativi, oltre che creditizi, con alcuni dei principali gruppi industriali e finanziari italiani, avevano fruttato opportunità di business, oltre che influenza sui principali centri di potere (Corriere della Sera, il primo e più influente quotidiano nazionale; Telecom Italia, la prima compagnia di telecomunicazioni del Paese; Generali, uno dei principali gruppi assicurativi europei con oltre 400 miliardi di asset gestiti), nel nuovo scenario globale seguito al crack di Lehman Brothers, le partecipazioni hanno portato più dolori che gioie. Nell’ultimo esercizio, quello chiuso al 30 giugno 2012 e caratterizzato dalla fase più acuta della crisi del debito sovrano dell’Italia, Mediobanca ha visto crescere il risultato dell’attività bancaria (attestatosi a 562,8 milioni dai 531,8 milioni di un anno prima), ma questo è stato quasi completamente eroso dall’andamento delle partecipazioni (604 milioni di perdite sul portafoglio titoli, legate in parte alle svalutazioni delle quote in Telco e Rcs, non sufficientemente compensato dai risultati delle Generali, consolidata pro-quota). In altre parole, le partecipazioni rendono estremamente volatile il conto economico della banca. Di qui la decisione di proseguire sulla strada già percorsa negli ultimi anni, in cui sono stati alienati titoli azionari per circa 3 miliardi di euro. Nei prossimi mesi, dunque, se Nagel terrà fede al piano che si accinge a presentare, Mediobancadovrebbe disimpegnarsi da Telco, sfruttando la finestra che a settembre permetterà a ciascun socio della holding di chiederne la scissione. Piazzetta Cuccia rientrerà così in possesso del 2,6% di Telecom Italia conferito nel 2007 (oltre alla propria quota parte del debito della scatola), che sarà collocato tra i titoli disponibili per la vendita. Questo non dovrebbe portare a un disimpegno immediato dalla società telefonica, che ha in corso una ridefinizione della propria mission strategica, che in Mediobancaintendono supportare.

Un copione analogo dovrebbe essere seguito in Rcs. Subito dopo l’aumento di capitale della società editoriale, l’attuale patto di sindacato dovrebbe essere sciolto e alcuni dei soci forti di Via Rizzoli, tra cui la stessa Mediobanca, dovrebbero dare vita a un accordo di consultazione. Un patto light, che lascerà mano libera nella gestione delle rispettive partecipazioni, che dovrebbe accompagnare Rcs nell’alveo di una nuova proprietà.

Più complesso, invece, il caso delle Generali. Qui la discesa dall’attuale 13,2% è di fatto imposta dalle regole di Basilea 3, che entreranno in vigore gradualmente dal 2014 e che prevedono che le partecipazioni detenute dalle banche nelle compagnie di assicurazioni, se superiori al 10% del patrimonio di vigilanza, vadano dedotte per la quota eccedente. Rimanere agli attuali livelli partecipativi nel Leone si tradurrebbe dunque in un’erosione di capitale per Mediobanca, che in questi anni ha fatto proprio della solidità patrimoniale (il Core Tier 1 ratio al 30 marzo era dell’11,97%) una dei suoi punti di forza. La discesa, comunque, non dovrebbe essere né drastica (si suppone attorno al 9-10%) né repentina. Mediobanca continuerà ancora a essere il primo azionista della compagnia triestina, ma nell’ambito di una coalizione con alcuni investitori privati (Del Vecchio, De Agostini e Caltagirone) le cui partecipazioni aggregate equilibreranno di fatto quella della banca d’affari.

I proventi delle dismissioni saranno investiti nel rafforzamento dell’attività bancaria, sia sul fronte corporate sia su quello retail. Non saranno dunque chiesti sacrifici agli azionisti né in termini di futuri aumenti di capitale finalizzati alla crescita né in termini di rinuncia ai dividendi, che invece dovrebbero essere garantiti nell’arco del triennio.

 

Nel dettaglio, le attività di corporate & investment banking dovrebbero quindi essere rafforzate, sia adottando un nuovo modello organizzativo, che possa essere più comprensibile dal mercato, sia potenziando ulteriormente la presenza estera diMediobanca. Il piano non dovrebbe prevedere l’apertura di alcuna nuova sede (se non i presidi in corso di allestimento in Turchia e Cina) ma il rafforzamento (anche attraverso l’assunzione di nuovi talenti dall’esterno) delle attuali sedi di Madrid, Parigi, Francoforte e Londra, dove dovrebbe essere trasferita una parte della ricerca azionaria e dove sarà ulteriormente potenziata la redditizia attività di fabbrica prodotto (derivati e strutturati) a supporto dell’investment banking. Proprio l’espansione all’estero viene considerata la chiave per far crescere i ricavi, che a fine piano potrebbero essere ripartiti equamente tra le attività italiane e quelle oltre confine (ma non è esclusa una prevalenza di queste ultime). Il piano non dovrebbe agire invece sulla riduzione dei costi, che potrebbero invece aumentare a fronte degli investimenti necessari per rafforzarsi all’estero. Ma, almeno a giudicare dall’attuale cost/income ratio di Piazzetta Cuccia, pari al 36% contro una media delle banche di investimento globali del 60%, gli spazi per un’ulteriore crescita sembrano esserci. Dopo la stretta sui crediti degli scorsi trimestri, il nuovo piano dovrebbe prevedere, pur in un’ottica del contenimento del rischio, anche un’accelerazione sui volumi, sia nei confronti della clientela large corporate, sia nei confronti delle medie imprese. (riproduzione riservata)