L’avvocato non deve corrispondere alla Cassa forense alcun tipo di contribuzione per i compensi percepiti come consigliere di amministrazione di una società di capitali. Né, dunque, una maggiorazione percentuale né una prestazione integrativa. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 5975 dell’11 marzo 2013, ha respinto il ricorso della Cassa nazionale forense.
A pochi giorni dalla decisione (sentenza 5827 dell’8 marzo) della stessa sezione lavoro che aveva condannato un ingegnere a versare a Inarcassa i contributi sui compensi percepiti come amministratore d’azienda, la Suprema corte ci ripensa, dando, questa volta, ragione all’avvocato e creando i presupposti per un intervento delle Sezioni unite su questo tema divenuto ormai controverso nell’ambito della sezione lavoro.
In questo caso, ad avviso del Collegio di legittimità, fra la carica di consigliere di amministrazione e attività professionale forense non sussiste nessun tipo di contatto che può condannare al pagamento dei contributi. In motivazione i giudici del Palazzaccio ricordano infatti che l’art. 11 della legge 20 settembre 1980 n. 576, modificato dall’art. 2 della legge 2 maggio 1983 n. 175, prevede che nella parte in cui prevede l’obbligo per gli avvocati e procuratori (nonché per i praticanti procuratori) di versare alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza per avvocati e procuratori una maggiorazione percentuale o contributivo integrativo «su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’Iva».
Tale articolo va interpretato, tenuto conto della ratio della medesima, nel senso che oggetto di tale imposizione contributiva sono soltanto i redditi prodotti dallo svolgimento dell’attività professionale, restandone invece esclusi quelli che non sono riconducibili all’esercizio della professione in senso stretto in quanto prodotti nell’esercizio di attività che rimangono, rispetto a essa, del tutto estranee.