Mario Draghi, il governatore della Banca centrale europea, da anni invoca una maggiore occupazione femminile in Italia. Grande attenzione per aumentare la presenza delle donne nel mondo del lavoro è anche nel programma dei candidati alle prossime elezioni politiche. D’altra parte l’Italia è ancora agli ultimi posti nella graduatoria dei Paesi con la più alta percentuale di donne impiegate.
Eppure l’occupazione femminile rappresenta un fattore che può contribuire alla crescita economica di uno Stato: «Contribuisce direttamente aumentando il pil tramite più ore di lavorate e maggiore produttività e contribuisce indirettamente facendo crescere la domanda di servizi, come lavori domestici, servizi sociali, agendo quindi da volano per occupazione addizionale», sottolinea una recente ricerca del Cnel (Valorizzare le donne conviene). L’Ocse stima che un aumento dell’occupazione femminile che raggiunga quella maschile potrebbe generare incrementi del Pil del 22% in Italia, un aumento più alto che altrove. Ma da questo punto di vista il cammino verso una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro è ancora lungo. «Se infatti le giovani italiane sono più istruite degli uomini, l’occupazione femminile resta ancora una sfida», spiega il vicepresidente del Cnel Salvatore Bosco.
Il tasso di occupazione delle donne è infatti, con l’eccezione di Malta, il più basso d’Europa (circa 12 punti in meno della media) e si attesta a settembre 2012 al 47,4%, con un lieve aumento dell’1,1% rispetto a un anno prima. Di contro il tasso di disoccupazione, pari all’11,8%, aumenta dell’1,6% da settembre 2011 e lo stesso, peraltro avviene per gli uomini (+2,2%).
In ogni caso il divario di disoccupazione tra i due sessi rimane il più alto d’Europa, 20%. «Il tasso di inattività delle donne tra 15 e 64 anni (46,3%) diminuisce rispetto all’anno precedente, ma le sue dimensioni rimangono comunque preoccupanti: quasi la metà delle italiane il lavoro neppure lo cerca», prosegue Bosco. Eppure il lavoro delle donne è utile a far crescere l’economia. E anche a rendere più ricca la previdenza pubblica. «Se messe nelle condizioni di farlo», aggiunge Bosco, «le donne potrebbero contribuire alla sostenibilità del sistema pensionistico, il loro lavoro farebbe crescere il reddito delle famiglie, aumenterebbe la domanda di servizi, produrrebbe quindi nuovi posti di lavoro e una ricchezza diffusa con il conseguente incremento della domanda di consumi. Un vero e proprio circolo virtuoso che porterebbe, si è calcolato, a una crescita del pil del 9% a parità di altre condizioni».
Ma per ora poco si è fatto per facilitare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, sia in termini di maggiori prestazioni sociali a servizio della famiglia, sia di incentivi fiscali per le aziende. L’unico intervento di rilievo che è stato varato dalle ultime riforme riguarda l’età per accedere alla pensione pubblica.
Modifiche che hanno colpito in maniera particolare le donne. Si è voluto cancellare l’anticipo dell’età di pensionamento rispetto agli uomini che in passato era stato introdotto per compensare le donne del maggior impegno in famiglia. Dal grafico qui accanto emerge proprio lo scalino delle età per il congedo delle donne del settore privato. Quest’ultimo in pochi anni è passato dai 62-63 anni ai 67 dal 2018 in avanti quando saranno unificate le età della pensione di vecchiaia di uomini e donne del privato e del pubblico impiego. Una ricerca del Cer di Pavia mette in rilievo che sono proprio le donne loro a pagare il prezzo più salato per la riforma, perché sono quelle che hanno visto allontanarsi di più la data di addio al lavoro. «In effetti la riforma Fornero provoca un significativo aumento dell’età media dei nuovi pensionati. Concentrandosi sul settore privato negli scenari pre e post riforme, si nota che l’incremento più consistente riguarda le donne». Continua l’analisi: «La riforma Fornero determina un incremento aggiuntivo dell’età media, pari a poco più di un anno e mezzo per gli uomini e a circa quattro anni e mezzo per le donne. Nel nostro scenario di previsione le donne continuano a registrare, rispetto agli uomini, carriere lavorative mediamente più discontinue. A parità di età, quindi, la loro anzianità contributiva è minore e questo limita il loro accesso al pensionamento anticipato per anzianità contributiva. Il canale di pensionamento privilegiato per le donne rimane quello di vecchiaia, e questo spiega la maggiore età media al pensionamento delle donne», spiegano gli esperti.
Eppure le donne, più degli uomini, vorrebbero lasciare l’attività prima. Da un’indagine realizzata dal Censis per la Covip emerge che solo il 23,5% dei lavoratori italiani ritiene che andrà in pensione all’età desiderata. Il 31,2% desidererebbe andare in pensione addirittura sotto i 60 anni: il 25,9% dei maschi e il 37,5% delle donne.
Ma purtroppo oggi non è più così sia per le lavoratrici del settore pubblico, sia per quelle del privato. Progetica, società indipendente di consulenza in educazione e pianificazione finanziaria, ha elaborato per MF-Milano Finanza la stima del momento del pensionamento e dell’ammontare percentuale dell’assegno pensionistico per sei tipologie di lavoratrici: dipendenti, autonome, 30-40-50enni, che hanno iniziato a lavorare a 25 anni). «Per tutte, l’età di pensionamento dopo le recenti riforme supererebbe mediamente i 65 anni. Una notevole differenza rispetto alla situazione precedente, quando tutto il mondo femminile andava in pensione prevalentemente con i 60 anni di vecchiaia», spiega Andrea Carbone di Progetica.
Tutti i valori, sia per il quando sia per il quanto, sono espressi in forma di forchetta, coerentemente con l’attuale scenario normativo che introduce elementi di variabilità in funzione di parametri demografici (la crescita della speranza di vita), finanziari (il Pil) e lavorativi (la carriera). Ad esempio per una 30enne lavoratrice dipendente il tasso di sostituzione atteso, ovvero la percentuale dell’ultimo stipendio che si avrà come pensione, può andare dal 53,7 all’81,1%, con uno scenario medio del 67,4%. L’età del congedo di questa lavoratrice si colloca invece tra 65 anni e sei mesi e 68 anni e nove mesi. Mentre per una lavoratrice autonoma 40enne l’età attesa per la pensione varia da 64 anni e 10 mesi e 67 anni, mentre il tasso di sostituzione crolla: si va dal 36,3 al 51,8%. Il problema è che la rivalutazione dei contributi versati per la pensione pubblica è legate al pil. Motivo per cui gli assegni attesi in un Paese come l’Italia, che si prevede crescerà poco anche nei prossimi anni, saranno penalizzati dalla frenata del pil che compensa i maggiori contributi accumulati grazie alla maggiore permanenza al lavoro.
Di qui l’urgenza anche per le donne di costruire una pensione di scorta. Progetica ha anche elaborato alcune previsioni su quanto versare per avere una rendita di 1.000 euro in più al mese. E qui il fattore tempo è fondamentale. Prima si inizia meglio è. Ad esempio nel caso la scelta ricada su una linea garantita se per una lavoratrice di 30 anni serve un versamento di 587 euro, una quarantenne dovrebbe investire nel fondo pensione oltre 890 euro. Inoltre a fine 2012 è stata cancellata la metodologia di calcolo delle rendite differenziata tra uomini e donne per considerare la diversa aspettativa di vita. Con il risultato che per i nuovi contratti le donne riceveranno un po’ di meno rispetto al passato. «Per quanto riguarda le stime sulla previdenza complementare, abbiamo simulato i nuovi coefficienti di trasformazione in rendita unificati, così come previsto dalle normative comunitarie, aventi effetto in Italia dal 21 dicembre 2012», prosegue Carbone. La nuova normativa deriva da una sentenza europea del 2011 in tema di discriminazioni di genere, sollevata da un gruppo di consumatori belgi. «Per i contratti di previdenza complementare stipulati prima del 21 dicembre sembrerebbe restare in vigore la differenziazione dei coefficienti in base al genere al momento della riscossione della rendita, come da alcune circolari Ania e Covip.
«I nuovi coefficienti si collocano a metà strada rispetto ai precedenti per uomini e donne», aggiunge Carbone. C’è poi il problema dei buchi contributivi che colpisce particolarmente le donne strette tra contratti precari e più frequenti interruzioni di carriera. Per questo Progetica ha anche elaborato alcune simulazioni considerando tre possibili scenari di stop ai versamenti di contributi. «La seconda tabella mette a confronto differenti tipologie di buchi contributivi: quelli singoli, quelli derivanti dalla sospensione dell’attività lavorativa per occuparsi dei figli, e quelli dovuti all’interruzione anticipata a 60 anni», conclude Carbone. «Tutti possono avere impatti rilevanti sull’importo dell’assegno pensionistico, e andrebbero considerati all’interno delle proprie strategie di pianificazione finanziaria. Un motivo in più per occuparsi da subito di pianificare la propria stabilità economica al tempo della pensione».
Ad esempio, nel caso di tre buchi contributivi da un anno ciascuno, una lavoratrice dipendente di 40 anni avrebbe 122 euro in meno al mese di pensione pubblica rispetto all’ipotesi di un impiego costante. Se la stessa dipendente si astenesse dal lavoro per cinque anni per maternità avrebbe 190 euro mensili in meno, mentre se andasse in pensione a 60 anni perderebbe 342 euro al mese. Di qui l’importanza di avere un mercato del lavoro che sia in grado di assicurare non solo alle donne ma a tutti i lavoratori migliori condizioni di accesso al lavoro e soprattutto supporti gli inoccupati nella ricerca di un lavoro. Un tema che oggi più che mai è d’attualità e va affrontato il prima possibile in Italia. (riproduzione riservata)