di Roberta Castellarin e Paola Valentini
Poveri quarantenni. Oggi sono alle prese con la recessione economica e sono quelli che pagheranno il prezzo più caro in termini di riduzione del montante contributivo al momento della pensione. Il prezzo della crisi insomma per loro sarà doppio. Nel sistema previdenziale contributivo infatti il montante (ossia la somma dei contributi versati) viene rivalutato in base alla crescita media del pil quinquennale. Per di più l’allungamento della vita lavorativa previsto dalla riforma Fornero fa accumulare più contributi, però di fatto ciò è compensato dalla revisione dei coefficienti di trasformazione in rendita che abbassano l’assegno perché anch’essi sono legati al pil, oltre che alla speranza di vita. Di qui l’importanza della crescita economica per l’entità dell’importo della pensione pubblica. Una stagnazione prolungata dell’economia italiana taglierebbe l’assegno futuro dei lavoratori fino al 24%. Tanto più che questi ultimi devono già fare i conti con l’eredità del biennio 2008-2009 (-6,3% complessivo), due anni di profonda recessione che ancora pesano sulle medie quinquennali del pil utilizzate per rivalutare i contributi. La situazione migliora invece per chi beneficia ancora in parte del metodo retributivo, che però di fatto si è interrotto nel 2011. Infatti dal gennaio di quest’anno la riforma Fornero ha esteso a tutti i lavoratori il metodo contributivo, anche se in forma pro-quota per chi al 31 dicembre 1995 aveva maturato più di 18 anni di contributi. La rivalutazione in base al pil pesa di più per chi ricade nel metodo misto (coloro che al 31 dicembre 1995 erano già occupati ma non aveva maturato più di 18 anni di contributi): per questi lavoratori dal 1996 è in vigore il metodo contributivo. Mentre gli assunti dopo il 1° gennaio 1996 sono esposti totalmente alle oscillazioni del pil perché per loro vale fin dal primo giorno di lavoro il metodo contributivo. In base al quale la pensione si calcola moltiplicando il montante dei contributi versati per un coefficiente di trasformazione rapportato all’età dell’assicurato al momento del pensionamento. L’importo contributivo viene poi rivalutato al 31 dicembre di ogni anno in base a un tasso di capitalizzazione virtuale pari alla media del pil nominale degli ultimi cinque anni: è quindi evidente che un pil in recessione riduce la media quinquennale perché il valore negativo si ripercuote per i cinque anni successivi alla crisi, tenendo comunque molto basse le percentuali di rivalutazione. La serie storica (si veda grafico in pagina) mostra il coefficiente di rivalutazione dei contributi, in termini reali, pari alla media quinquennale del pil. La crisi del biennio 2008-2009 (rispettivamente -1,2 e -5,5%), la scarsa crescita degli anni 2010- 2011 e la recessione del 2012 portano le medie quinquennali di questi e dei prossimi anni in terreno negativo. I contributi previdenziali si potrebbero quindi rivalutare meno dell’inflazione. Come precisa Andrea Carbone della società di consulenza indipendente Progetica: «La serie storica evidenzia che le rivalutazioni stimate dei montanti contributivi, al netto dell’inflazione, potranno essere negative per almeno cinque anni dal 2010 al 2014». Progetica ha elaborato per MFMilano Finanza una stima di come potrebbe cambiare il tasso di sostituzione al variare delle previsioni del pil, a parità di parametri demografici e lavorativi. Nell’ambito del regime contributivo gli effetti della recessione sono differenti a seconda che il lavoratore sia più o meno vicino all’età della pensione. «Così come accade per gli shock di mercato, la variabile decisiva per stimare l’impatto di questi anni, che hanno ormai creato una perdita di potere di acquisto sui montanti contributivi, è il pil medio tendenziale futuro», aggiunge Carbone. «Le simulazioni del secondo foglio mostrano infatti le stime dei tassi di sostituzione in funzione di tre scenari di pil medi futuri (dallo 0 al 2%, ndr)» In particolare, le oscillazioni, per i dipendenti che hanno di fronte a sé lunghi periodi, possono sfiorare 24 punti percentuali di tasso di sostituzione. Come dire che una settimana su quattro di copertura del proprio tenore di vita mensile può dipendere dall’andamento del pil. È il caso di un dipendente di 30 anni: la percentuale dell’ultimo stipendio che percepirà scende dal 75 al 51% se il pil anziché crescere del 2% medio resta al palo, mentre per un cinquantenne la decurtazione è dell’11% con il tasso di sostituzione che si abbassa dal 79 al 67%. Uno scenario preoccupante, quello della bassa crescita economica prolungata, che però oggi non appare irrealistico. Per questa ragione Carbone sottolinea che «monitorare l’andamento del pil e l’impatto sulla propria posizione previdenziale è uno degli elementi di “manutenzione” delle proprie strategie pensionistiche. Prendendo per esempio la previdenza complementare, la seconda tabella mostra il maggiore versamento mensile che, in funzione della linea di investimento, andrebbe effettuato per compensare un pil medio futuro fermo anziché in crescita dell’1 o del 2%». Delle due l’una: o si riesce a far crescere il pil o si mettono in campo fattori correttivi della mancata rivalutazione del montante contributivo. Anche perché nel 2011, per la prima volta da quando è in vigore la legge Dini che ha introdotto questo meccanismo, i contributi versati saranno rivalutati a un tasso inferiore rispetto all’inflazione. Da qui le proposte per cambiare il parametro di rivalutazione. Come quella presentata di Massimo Angrisani, docente di Tecnica attuariale per la previdenza all’università La Sapienza di Roma: «Occorre modificare la regola sul rendimento riconosciuto sui contributi pensionistici prevista nel vigente sistema contributivo, regola che, essendo basata sul tasso di variazione del pil nominale, scarica il tasso di variazione del numero dei lavoratori, contenuto nel tasso di variazione del pil nominale, sul rendimento riconosciuto a tali contributi. Tale variazione, che già risulta negativa, manifesterà questa tendenza, quasi sicuramente per lungo tempo, anche nel futuro a causa delle condizioni demografiche ed economiche, incidendo negativamente sul tasso di rendimento riconosciuto sui contributi pensionistici e contribuendo a formare pensioni da fame». Oltre all’enorme stock di debito pubblico la mancata rivalutazione delle pensioni sarà l’ennesimo boccone avvelenato che le vecchie generazioni lasciano in eredità ai giovani. I più colpiti saranno proprio i quarantenni, che vedono il tasso di copertura comunque basso anche in caso di ripresa dell’economia. La ragione è semplice: per chi oggi ha 30 anni ci sono margini maggiori di recupero in caso di una ripresa economica forte, mentre per chi ha 40 anni i margini di recupero sono più limitati. A dirlo sono ancora una volta le elaborazioni di Progetica. Anche nel caso più ottimistico di un ritmo del pil al 2% nei prossimi 30 anni, per un lavoratore dipendente 40enne il tasso di sostituzione si ferma al 68%, mentre per un 30enne è del 75% e per un 50enne è del 79%. La situazione degli autonomi è ancora più critica: un 40enne che svolge un lavoro autonomo nella migliore delle ipotesi avrà il 46% dell’ultimo stipendio e nello scenario peggiore del 35%. Anche lo Stato oggi per calcolare i tassi di sostituzione assume un tasso di crescita del pil che appare sopravvalutato, ovvero l’1,5%. In base a tale dato la Ragioneria Generale calcola che nell’ipotesi base, cioè di pensionamento a 68 anni con 38 anni di contributi, se nel 2010 un dipendente
privato si poteva ritirare dal lavoro con il 74% dello stipendio, nel 2060 si otterrà il 63,5% (tabella in pagina). Va infine tenuto presente che queste stime si basano su un’ipotesi di carriera continuata e quindi non tengono conto di possibili buchi contributivi. (riproduzione riservata)