di Anna Messia
Mediolanum sceglie la strada della prudenza e svaluta la partecipazione detenuta in Mediobanca, pari al 3,383%, per 66 milioni. Mentre mette a dieta la cedola «con un payout che sarà il più basso della storia del gruppo, scendendo nettamente sotto la soglia del 50%», ha dichiarato il patron del gruppo, Ennio Doris, per poi tornare auspicabilmente almeno al 50% per il prossimo esercizio. Ma in termini assoluti la cedola di quest’anno, prevista tra 14 e 15 centesimi, sarà comunque più alta del 2011, quando si era attestata a 11 centesimi. Il fatto è che i conti dei primi nove mesi, che hanno evidenziato una crescita per certi versi superiore alle attese degli analisti, avrebbero forse lasciato immaginare una cedola più ricca e questo spiega la delusione del mercato che ha ieri penalizzato il titolo con una flessione dell’1,43% a 3,71 euro. La società di risparmio gestito ha chiuso infatti i nove mesi con un utile di 291,5 milioni, quasi quadruplicato rispetto all’anno scorso (+380%) e che senza la svalutazione di Mediobanca sarebbe stato di 357,7 milioni. L’utile netto solo del mercato domestico è salito a 280,1 milioni (+355%), mentre quello dei mercati esteri è risultato pari a 11,4 milioni contro la perdita di 3,7 milioni nel 2011. Le masse amministrate sono poi salite del 13% a 50,8 miliardi, mentre la raccolta netta è risultata positiva per 1,67 miliardi. Questi numeri «dimostrano che diamo il nostro meglio nei periodi di crisi», ha detto Doris. A fronte dei risultati il management ha deciso di pagare un acconto sul dividendo di 10 centesimi per azione contro i 7 centesimi di anticipo dell’anno scorso. Il saldo dovrebbe essere dunque di circa 4-5 centesimi. «Non potremo essere generosi come avremmo voluto per quest’anno», ha detto il top manager, ricordando che gli utili della capogruppo, su cui viene calcolata la cedola, registrano uno slittamento rispetto all’andamento del consolidato. Mentre in riferimento a Mediobanca ha detto di aspettarsi che il piano industriale «farà vedere sviluppi migliori di quello che si può prevedere, con miglioramenti possibili anche in Generali». Aggiungendo, sull’ipotesi di fusione Intesa-Unicredit, che non c’è bisogno dell’integrazione, «perché entrambi sono sufficientemente grandi», ma «il rischio di scalata c’è». (riproduzione riservata)