Mariano Mangia
Roma I numeri, piuttosto sconfortanti, della previdenza integrativa li ha ricordati il presidente della Covip, Antonio Finocchiaro, intervenendo a un recente convegno: «Al 31 agosto solo un lavoratore su quattro aveva ritenuto necessario o almeno opportuno aderire a una forma di previdenza complementare- ha detto Finocchiaro – Le distribuzioni per sesso, età, area geografica di residenza e altre caratteristiche socio — demografiche mettono in luce forti differenze. La partecipazione dei giovani risulta ancora più limitata. Praticamente assenti i lavoratori del settore pubblico, per i quali sarebbe opportuno programmare gli interventi necessari per incoraggiare le loro scelte pensionistiche. Tenendo conto della mancata e/o limitatissima alimentazione di un milione di posizioni individuali, il rapporto tra aderenti e occupati si riduce a un quinto». Eppure l’ultimo intervento sul sistema pensionistico ha reso gli italiani più consapevoli del problema previdenziale, lo conferma la ricerca, «Del doman v’è certezza», realizzata in settembre da GfK Eurisko per conto di Assoreti, su un campione di 1.000 individui capifamiglia. La riforma Monti-Fornero è ben nota: dichiara di conoscerne bene i contenuti il 64% degli intervistati, percentuale che sale al 75% per la fascia di età compresa tra 55 e 60 anni. In pochi, poi, si fanno illusioni sulla pensione che li aspetta, visto che, rispetto al passato, ben l’82% degli intervistati si dice più pessimista sulla possibilità
di ricevere una pensione adeguata. Informati e consapevoli, dunque, ma come reagiscono? Alla domanda su come pensa di garantirsi il tenore di vita desiderato nel caso la pensione di base non dovesse bastare, c’è un 28% che semplicemente non affronta il problema, il 26% perché ci penserà in futuro e un 2% perché si è posto il problema, ma non ha trovato una soluzione. Solo il 21% ha progettato o sta per progettare un’integrazione della pensione, attraverso forme di previdenza complementare (20%) o prodotti d’investimento (1%), ed è interessante notare che quando interviene una figura professionale a supporto, un promotore finanziario, la percentuale di capifamiglia che «progetta» previdenza integrativa sale dal 21 al 33% e cala, dal 28 al 18%, la quota di chi non affronta il problema. Ma la maggioranza degli intervistati, il 38% del campione, percentuale che non cambia tra i clienti di reti di promozione, sceglie quella che gli estensori della ricerca etichettano come la «via italiana», un mix di soluzioni creative e alternative, di dubbio funzionamento, come pensare di continuare a lavorare (18%), utilizzare risparmi o il patrimonio accumulato (il 17%), ridurre il tenore di vita (il 3%), confidare nell’aiuto dei familiari (2%). Cosa manca ai prodotti della previdenza complementare per convincere i lavoratori a sottoscriverli? Lo rivela un’altra ricerca, l’edizione 2012 dell’Indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, condotta da Intesa Sanpaolo e dal Centro Einaudi. Tra le misure che potrebbero far crescere l’interesse per i fondi pensione, in cima alle preferenze c’è un aspetto fiscale, il 30,3% degli intervistati ha indicato la detassazione completa della rendita integrativa, ma sembra emergere anche una scarsa fiducia nei fondi pensione, visto che un buon 30% del campione apprezzerebbe una solvibilità dei fondi garantita dal governo in caso di crisi e un ulteriore 17,6% vorrebbe avere la certezza di un interesse minimo. E, a questo riguardo, c’è un dato significativo: più del 40% di coloro che hanno aderito alla previdenza integrativa non ricorda o conosce il rendimento rilevato nel corso dell’ultimo anno, né quello medio annuale dal momento del versamento della prima quota. «Sembra quindi che gli investitori non abbiano percepito gli effetti della crisi sulle performance del proprio fondo, o più semplicemente tendano a `pensare con l’occhio del presente’, senza percepire differenze tra i rendimenti complessivi e quelli dell’ultimo periodo», si legge nella ricerca. Tra le richieste di miglioramento, infine, emerge l’avversione alla rendita vitalizia che spinge il 17,3% degli intervistati a chiedere di poter ritirare il montante al momento del pensionamento. La voglia di disporre di una maggiore flessibilità nell’utilizzo delle somme accantonate spiega anche la riluttanza al conferimento del Tfr negli strumenti della previdenza complementare: nel 2011, a fronte di un flusso di Tfr complessivo stimato dall’Istat di 14 miliardi, solo 5,5 miliardi sono confluiti nei fondi pensione. Tra i lavoratori dipendenti che hanno deciso di conservare il Tfr, rivela la ricerca di Intesa Sanpaolo, un 29,4% (erano consentite risposte multiple) si fida più dell’azienda che dei fondi pensione, poco più di un lavoratore su cinque lo ha fatto per poterne disporre in caso di perdita o cambiamento del posto di lavoro, ma quasi la metà, il 49,4%, lo ha fatto per potere riscuotere l’intera somma al momento del pensionamento e poter decidere in autonomia come gestirla, il che riconduce, ancora una volta, a quella «via italiana» che sembra prevalere nell’affrontare e risolvere il problema previdenziale. L’ultimo intervento sul sistema pensionistico ha reso gli italiani più consapevoli del problema previdenziale, lo conferma la ricerca, «Del doman v’è certezza», realizzata in settembre da GfK Eurisko per conto di Assoreti, su un campione di 1.000 individui capifamiglia