di Giuseppe Di Vittorio e Alberto Micheli
Borsa Italiana dopo 200 anni di storia è a rischio svuotamento. L’Idem, il mercato dei derivati nato 20 anni fa, potrebbe andare in frantumi, un terzo di punto del pil nazionale rischia di dissolversi. Queste sono solo alcune delle conseguenze dirette dell’eventuale introduzione di una Tobin tax nella versione attualmente al vaglio del governo italiano, alcune paradossalmente ammesse dallo stesso esecutivo. Senza contare che una parte importante dei flussi di capitali in uscita dall’Italia transiteranno verso altri Paesi. Londra, New York e in una prima fase anche Francoforte si stanno già fregando le mani. E i disagi non finiscono qui, oltre alle conseguenze dirette ce ne potranno essere anche altre ben più gravi: il calo della liquidità sui mercati azionari finirebbe infatti per ampliare i movimenti degli indici e in caso di trend negativo potrebbe far lievitare per correlazione i rendimenti dei titoli corporate, peggiorando le condizioni di accesso al credito delle imprese quotate. Sempre su questo fronte, emergerebbero poi complicazioni anche in fase di emissione; un mercato secondario poco efficiente imporrebbe infatti un peggioramento delle condizioni anche degli strumenti in collocamento. Di fronte a questo scenario di semi apocalisse i vertici di Piazza Affari tacciono, come se l’applicazione della Tobin non li riguardasse. Ma com’è possibile che una tassa apparentemente così bassa, solo lo 0,05% su azioni e derivati, possa creare tutto questo scompiglio? Le ragioni sono da ricercare nella struttura del mercato italiano. I fornitori di liquidità hanno su Piazza Affari un peso molto rilevante, dal momento che garantiscono una controparte in qualunque momento a chi vuole comprare o vendere. In questa categoria vanno ricondotti i market maker (istituzionali), gli hft (high frequency trading) e anche gli scalper (privati). Negli ultimi anni la transazione media è diventata molto sottile, circa 10 mila euro, e con essa si sono ridotti anche i tempi medi di durata delle operazioni ed evidentemente i guadagni medi per singola operazione. È chiaro che su queste cifre un onere anche apparentemente molto piccolo può rendere economicamente non conveniente l’operazione. L’industria del trading online ha favorito e accompagnato questo processo. Un tempo erano solo le banche a fare questo tipo di attività. Le commissioni sono scese molto, con medie di settore vicine a 4 euro e punte vicine a 2 euro per gli operatori che fanno un numero elevato di eseguiti, rendendo così possibile l’attività in questione. I privati intercettano un terzo degli scambi di borsa: si tratta di circa 560 mila conti, di cui solo 385 mila hanno un’operatività blanda, fatta di qualche eseguito al mese (i cosiddetti cassettisti), mentre tutti gli altri sono molto attivi con decine di operazioni mensili. Gli operatori più attivi raggiungono punte molto elevate di attività: sono in 18-20 mila e concentrano più della metà del controvalore negoziato in borsa da tutti i privati. Qualcuno potrà pensare che tagliare fuori dal mercato 175 mila persone non sia un problema così grosso, ma la realtà è ben diversa: venendo meno questi operatori, peggioreranno le condizioni per quelli che rimarranno. E l’operatività di tutti sarebbe messa a dura prova da un aumento delle commissioni di negoziazione della Borsa e dei broker. Gli attuali livelli sono sostenibili perché si genera un certo quantitativo di volumi ma una riduzione dell’operatività (cioè della produzione) tenderebbe a far lievitare i costi unitari. Se le prospettive sono negative per i mercati azionari, la situazione sarebbe addirittura drammatica per i derivati, il cui calo delle transazioni viene stimato nell’ordine dell’80% dal governo stesso. L’aspetto decisivo per comprendere la criticità dell’attuale proposta di legge per quanto riguarda l’applicazione della Tobin tax ai derivati riguarda soprattutto l’incoerenza della sua applicazione al nozionale controllato dallo strumento invece che al premio con cui l’operazione viene finalizzata sul mercato. Per comprendere quanto questo meccanismo sia distorto, ma soprattutto non sostenibile, è sufficiente sviluppare un’analogia con le tradizionali assicurazioni. Oggi, per legge, è previsto che una polizza Rc auto debba garantire una copertura minima di 5 milioni per i danni alle persone e di 1 milione per danni a cose o animali, per ciascun sinistro provocato dal guidatore. Ciò significa che stipulando il contratto di assicurazione, il conducente del veicolo è coperto fino a 6 milioni. Pagando un premio di 500- 1.000 euro, si controlla quindi un nozionale decisamente più elevato: di fatto, al verificarsi di certe condizioni, il titolare della polizza può disporre di 6 milioni di euro, avendone investiti solo 1.000. Nel costo finale del contratto di assicurazione è compresa una componente di costo legata alle imposte, che viene calcolata proprio sul premio. Che cosa succederebbe se il legislatore decidesse di applicare un’aliquota anche al nozionale, magari dello 0,05% come quella prevista dalla Tobin tax? Il costo finale di una polizza aumenterebbe di minimo 3 mila euro (lo 0,05% di 6 milioni). Insostenibile. Si potrebbe obiettare che derivati e assicurazioni sono prodotti diversi, ma non è proprio così vero: molte aziende che operano con l’estero o che utilizzano materie prime nel proprio processo produttivo, utilizzano i derivati come copertu-ra dai rischi di mercato. Di fatto si assicurano dalle possibili fluttuazioni dei tassi di cambio e dei prezzi delle commodity, garantendo una maggiore stabilità ai propri costi di produzione e in definitiva anche ai prezzi dei beni che poi immettono sul mercato. Se il costo di questa copertura diventasse troppo oneroso per effetto della tassa applicata al nozionale dei derivati, la maggiorazione si trasferirà sui costi di produzione, rendendo antieconomica la copertura e obbligando l’azienda a chiudere l’attività o a trasferire i maggiori costi sul prezzo finale. Da una parte a pagare la tassa sarebbe sempre il solito consumatore e dall’altra l’azienda perderebbe potere competitivo rispetto ai competitor stranieri. L’altro campo di applicazione dei derivati è più strettamente legato all’ambito finanziario, ma non necessariamente finalizzato a ottiche speculative. Per esempio molti mutui vengono strutturati dalle banche grazie proprio all’utilizzo di derivati: per poter garantire un tasso fisso con un orizzonte pluriennale, un istituto di credito deve proteggersi dalle fluttuazioni dei tassi sul mercato e per farlo utilizza proprio derivati. Con l’applicazione della Tobin quanto costerebbe coprire un mutuo per l’acquisto di una casa, che di norma è sull’ordine di qualche centinaia di migliaia di euro? E soprattutto chi pagherà quel maggior costo? Anche in questo caso sarà sempre il solito consumatore finale, che progressivamente si troverà a dover scegliere tra mutui sempre più onerosi. Ma anche limitando l’analisi allo stretto ambito speculativo, secondo quale principio un mercato che perde l’80% della sua sostanza può ritenersi meno soggetto alla speculazione? Per una banale proprietà transitiva, un mercato in cui gli ordini si ridurranno a un quinto di quelli attuali, sarà cinque volte più soggetto alla speculazione. Del resto è molto più facile muovere un titolo sottile che non una blue chip: sono sufficienti meno capitali, perché si devono fronteggiare meno controparti. Non solo, anche volendo ammettere che la Tobin tax aiuterà a colpire la speculazione, perché saranno esclusi dalla sua applicazione proprio i titoli di Stato, cioè quelli che nell&r
squo;ultimo anno sono stati i più soggetti alla speculazione? Ha senso somministrare una medicina che si propone di guarire una malattia, decidendo però di escludere dalla cura proprio i soggetti più esposti a quella patologia? E poi ancora, perché escludere dall’applicazione della tassa gli operatori esteri, ad esempio le famigerate banche americane, che hanno avuto un ruolo così importante nella più recente deriva dei mercati finanziari? Anche sul fronte speculativo si otterrà il risultato esattamente opposto: gli speculatori internazionali potranno controllare il mercato italiano con molti meno capitali di prima e per di più senza nemmeno pagare alcuna tassa, che nell’attuale formulazione del governo è vincolata a un principio di residenza dell’investitore. Ma più di ogni altra considerazione, ciò che non quadra dell’iniziativa del governo sulla Tobin, è la totale autonomia del progetto rispetto ai partner europei: gli investitori italiani, e di riflesso anche i consumatori come si è ampiamente dimostrato, si vedranno imposto per legge uno svantaggio competitivo rispetto ai colleghi stranieri. Il tutto per una non meglio definita sete di giustizia verso la finanza, l’apparente causa di tutti i mali. Per far funzionare al meglio un ingranaggio, servono istruzioni (cioè regole) chiare e condivise: se l’ingranaggio funziona male, la soluzione non è quella di gettare nel meccanismo un granello di sabbia (come lo stesso James Tobin definì la tassa da lui ideata, che porta il suo nome e che lui stesso finì poi per ripudiare), perché il risultato sarà che l’ingranaggio manterrà i suoi difetti e in più funzionerà ancora peggio. (riproduzione riservata)