DI GIANNI CREDIT
Mentre le tensioni finanziarie esterne paiono raffreddarsi, il confronto politico riconquista rapidamente la scena, ma anche l’infrastruttura bancassicurativa interna non sembra affatto immobile. E in fondo non è così casuale che il primo scontro fra Renzi e Bersani, nell’arena del centrosinistra, sia maturato sulla criticità dei rapporti fra fi – nanza e politica. Nel metodo e nel merito se ne potrebbe parlare a lungo: ad esempio, del fatto che anche all’attuale leadership Pd la grande fi nanza (anche offshore) è tutt’altro che sconosciuta. L’Opa Telecom (con tutte le polemiche collaterali che seguirono) avvenne sotto il governo D’Alema. I controversi stop del governo Prodi a Tronchetti Provera sul riassetto della stessa Telecom e ai Benetton sull’alleanza spagnola per Autostrade avvennero con Bersani ministro dello Sviluppo. Ma nessuno dimentica neppure l’Opa Unipol-Bnl del 2005 («Abbiamo una banca») e, soprattutto, il crollo del Montepaschi. È sempre stato a Siena il vero caposaldo del sistema bancario legato alla sinistra politica, peraltro connotato da un campanilismo anti-fi orentino (quindi oggi anti-renziano) appoggiato ai quartier generali nazionali di Pci-Pds-Ds-Pd: anche l’ultima nomina «tecnica» di Alessandro Profumo alla presidenza Mps è del resto nata così. Tutti, a Milano, hanno comunque ancora ricordo anche del grande summit organizzato nel 2006 a Sesto San Giovanni dall’allora presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, per conto della Fondazione Italianieuropei. Per discutere con D’Alema e Bersani del futuro del capitalismo in Italia si scomodarono tutti i banchieri, i leader delle Fondazioni, i capi-azienda delle big pubbliche e private, i direttori dei grandi giornali del Nord. Parterre analoghi, negli anni successivi, si radunavano soltanto per gli incontri di Aspen Italia organizzati dal super-ministro Tremonti. Giovedì sera a Milano, invece, alla cena elettorale del sindaco di Firenze non spiccava nessun nome: salvo, in termini simbolici, quello dell’organizzatore. Il fondo Algebris non rileva tanto perché ha sede alle Cayman (come ha denunciato Bersani) anche se paga le tasse a Londra, come ha ribattuto il gestore Davide Serra. Ha cittadinanza nella fi nanza italiana in quanto, da anni, conduce battaglie da «fondo attivista» contro i vertici di grandi gruppi: il più importante è stato (e forse continua a essere) Generali. E proprio il Leone di Trieste è stato alle cronache nel fi ne settimana per una riorganizzazione del vertice manageriale che pare avere un respiro ampio. Il ridimensionamento di Sergio Balbinot (che aveva ultimamente condiviso con Giovanni Perissinotto una lunga stagione come amministratore delegato a Trieste) pare segnare defi nitivamente una fase storica della compagnia: quella durata per quasi quarant’anni dal doppio patronato della Mediobanca di Enrico Cuccia e della Lazard di Antoine Bernheim. La nuova leadership manageriale piena di Antonio Greco (che ha potuto avvicendare molti nomi nella prima linea) apre un periodo in cui certamente il Leone proverà a riconquistare smalto nelle cifre di bilancio e in Borsa; ma anche, inevitabilmente, un periodo in cui Trieste avrà molta più autonomia che in passato anche sul piano strategico. L’oggettiva debolezza di Mediobanca (dopo il caso FonSai), la relativa forza di alcuni soci privati (Caltagirone e Del Vecchio in testa) interagiranno con Greco: un manager che si è formato anche in Allianz. Un uomo quindi che proviene dal gruppo che (assieme ad Axa e alle stesse Generali) forma lo storico tridente delle assicurazioni in Europa. D’altro canto Greco è esponente italiano di quella «Azienda-Germania» che, negli ultimi tempi, ha collocato altri due «big names» ai vertici dell’establishment fi nanziario: Giuseppe Vita presidente di UniCredit ed Enrico Tommaso Cucchiani come Ceo di Intesa Sanpaolo. UniCredit, Intesa, Generali: da un quindicennio le prospettive di sviluppo strutturale del sistema bancassicurativo italiano ruotano attorno ai tentativi di trovare combinazioni possibili fra i tre «campioni». Le stesse fusioni del 2007 (Intesa-Sanpaolo e UniCredit-Capitalia) possono essere considerati ulteriori passaggi intermedi: gli unici possibili allorché al centro dello scacchiere si collocava l’immobilismo inerziale della Mediobanca cucciana-maranghiana. Il tentativo più avanzato, non a caso, data già 2001: il governatore Antonio Fazio, alla fi ne, non era contrario a una fusione Intesa-Unicredit che avrebbe dato un piedistallo solidissimo al sistema Mediobanca-Generali e a quanto si andava aggregando attorno (da Rcs a Telecom). Proprio da piazza Cordusio, del resto, negli ultimi giorni, sono giunti ulteriori segnali da non trascurare. L’ipotesi di sostanziale scissione di UniCredit fra attività italiane e attività europee (ex Hvb e tutti i «possedimenti» nell’Europa dell’Est) è stata smentita ma solo «per ora». Dunque è di fatto sul tavolo la nascita di una «UniCredit Italia» che potrebbe tornare ad avere la struttura di controllo originaria: Fondazioni italiane (Verona e Torino in testa) e imprenditori italiani. Fra questi, peraltro, è uscito dai ranghi ordinari Luca di Montezemolo: divenuto vicepresidente in Piazza Cordusio in rappresentanza del fondo sovrano di Abu Dhabi, ormai grande azionista. Una variante in più del «nuovo puzzle» che si va disegnando nella «terra di nessuno» fra fi nanza e politica: un emirato del Golfo (gemello di quello del Qatar, impegnatissimo su Milano) e un eterno candidato a una leadership politica «di rottura» in Italia (un po’ gemello di Renzi). *da ilSussidiario.net