DI GIUSEPPE BEATO*
La chiave per comprendere i giusti contorni della questione del «buco Inpdap» sta tutta nella struttura generale dei bilanci di un ente previdenziale pubblico. Mentre un bilancio aziendale o anche pubblico descrivono le ricadute finanziarie di azioni e decisioni di carattere «discrezionale», strategie e scelte di gestione, la parte preponderante degli importi complessivi dei bilanci in questione deriva, invece, da atti vincolati per legge. Infatti, il 99% delle entrate (contributi) e delle uscite (prestazioni pensionistiche e previdenziali) sono obbligatori per l’ente previdenziale che le amministra, in quanto predeterminati dal legislatore, sia in relazione ai diritti /obblighi (acquisizione del contributo/ obbligo del pagamento della pensione), sia in riferimento al quantum di tali attività. Le disposizioni di legge predeterminano specifi camente le modalità di calcolo di ciascuna contribuzione e di ciascun contributo. Ciò signifi ca che nei bilanci, fi no allo scorso anno separati, di Inps e Inpdap il 99% dell’importo globale dei circa 375 miliardi di euro (importo, sia detto di passata, che equivale al 24% del pil nazionale e all’84% delle spese del bilancio statale al netto delle operazioni di debito pubblico) era, è sempre stato e sempre rimarrà vincolato alle scelte dei governi e dei parlamenti della repubblica in ordine ai livelli di contribuzione e alle regole (anzianità di servizio utile a pensione, metodo di calcolo etc) di erogazione delle pensioni. Rimangono fuori da questo discorso le spese di funzionamento, di carattere discrezionale perché rimesse alle strategie e alle scelte di tali enti. Tali spese, circa l’1% del totale, sono veramente consistenti in valori assoluti (549 milioni di euro per l’Inpdap e 3,9 miliardi di euro per l’Inps), tuttavia non si deve dimenticare che esse servono a «muovere» una «macchina amministrativa» che gestisce attribuzioni istituzionali, personale e denari di consistenza unica in Europa e superiore a quella della maggior parte delle singole amministrazioni ministeriali. Dov’è dunque il buco e, soprattutto, a chi deve essere ascritto il buco? La risposta è semplice: il buco, dell’Inpdap ma non solo, sta dove l’importo complessivo delle prestazioni supera l’importo complessivo delle entrate contributive. Lì dove si verifi ca tale sbilancio interviene il ministero dell’economia, cioè il bilancio dello stato, cioè ancora la fi scalità generale che supporta il bilancio dell’ente previdenziale pubblico, con una rimessa che «assicura» e garantisce comunque tutti i cittadini pensionati rispetto al diritto che ciascuno di loro ha maturato a percepire un certo importo mensile di pensione. Ed è appunto ciò che, da circa un ventennio, annualmente accade negli enti previdenziali ora unifi cati (si veda per l’Inps la serie storica presente alla pagina 60 del rendiconto generale 2011). Lo stato, che ha dettato in premessa le regole del gioco, è intervenuto a supporto di situazioni di difficoltà dei bilanci degli enti previdenziali quando l’importo complessivo della spesa delle pensioni superava i margini di auto-fi nanziamento di tali enti. Erano tali enti previdenziali i «colpevoli» di questi sbilanci? Solo scrittori disinformati, male informati o, peggio, in malafede possono attribuire all’Inpdap, o ad altri enti, la responsabilità di un «buco di bilancio» che derivava dalla normativa previdenziale e pensionistica così come i governi e i parlamenti della seconda repubblica hanno ritenuto di disporre. E non esisteva nemmeno un ente previdenziale «buono», l’Inps, e un ente previdenziale cattivo, l’Inpdap. Esistevano piuttosto due differenti metodi di finanziamento: quello dell’Inpdap, basato su un criterio di «anticipazioni di bilancio» cioè prestiti, cioè ancora poste che certifi cavano un defi cit di ente e ne depauperavano il patrimonio fi no al suo azzeramento e quello dell’Inps, invece, più edulcorato e qualificato come «trasferimenti defi nitivi alla Gias» (Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali) pur rivestendo la stessa natura e funzione economico fi nanziaria. Tutto perfettamente legittimo sia chiaro. La Gias fu istituita nel 1989, al tempo della gestione Billia direttore generale Inps, per fi nanziare, come appunto dice il nome, gli «interventi assistenziali» (pensioni di invalidità, cassa integrazione, trattamenti di disoccupazione ecc) e il «sostegno alle gestioni previdenziali». In particolare l’articolo 37, comma 3, lettera c), della legge n 88 dell’anno 1989 testualmente recita: «sono a carico della gestione… .c) una quota parte di ciascuna mensilità erogata dal fondo pensioni lavoratori dipendenti, dalla gestione speciale lavoratori autonomi, dalla gestione speciale minatori, dall’Ente nazionale di previdenza e assistenza dei lavoratori dello spettacolo (Enpals)… Tale somma è annualmente adeguata, con legge fi nanziaria, in base alle variazioni dell’indice nazionale annuo dei prezzi al consumo». La mai avvenuta separazione fra gestione della previdenza e gestione dell’assistenza nei bilanci Inps ha sostanzialmente consentito ai vari organi di amministrazione succedutisi nel tempo di affermare che l’Istituto «era in avanzo». Affermazione questa corretta a livello lessicale e di «formalità giuscontabile». Tuttavia chi si dia pena di consultare sul sito internet dell’Istituto i rendiconti fi nanziari dell’Inps potrà facilmente riscontrare, nel corso degli anni, un importo complessivo dei contributi previdenziali riscossi sempre inferiore rispetto all’entità delle prestazioni previdenziali (solo previdenziali si precisa, non anche quelle assistenziali) corrisposte. Andando poi a consultare le voci di spesa dei trasferimenti Gias potrà verifi care che una quota consistente dei circa 84 miliardi di euro trasferiti nel 2011 dall’erario all’Inps, sono ascrivibili a voci specifi camente previdenziali (si vedano in proposito le pagine da 364 a 368 del Rendiconto generale 2011). Non enti carrozzone, quindi, da una parte ed enti virtuosi dall’altra. Questa è solo misera «ammuina» intellettuale. La verità è tutta diversa e nessuno la vuole trattare per quella che è: cioè, che in questo paese era ed è attivo e operante da decenni il sistema di fiscalità generale come supporto allo squilibrio strutturale dei conti degli enti previdenziali pubblici, i quali non sono più in condizione di assicurare col solo gioco dei contributi/prestazioni l’equilibrio dei loro bilanci. Nulla di scandaloso in questo, visto che la fi scalità generale opera con effi cacia in paesi come la Danimarca e l’Olanda! Tuttavia è soluzione profondamente invisa a quei poteri che da sempre vogliono riportare la previdenza italiana ai principi del solo calcolo contributivo, lasciando ad altri soggetti fi nanziari il governo del fi nanziamento delle pensioni, di base e complementari. Quando le classi dirigenti passeranno da una prassi riformatrice che fa finta di «cercare il colpevole» delle situazioni di crisi a un’altra più equilibrata, serena e informata, si potrà fi nalmente avviare il dibattito sul ruolo, l’entità e l’utilità dell’intervento della fi – scalità generale sugli equilibri di bilancio del sistema pensionistico pubblico, la cui caratteristica di base è la seguente: la solidarietà sociale.
* L’autore è stato direttore di ragioneria e fi nanza dell’Inpdap e svolge attività sindacale nella Cida