di Pier Luigi Piccari
La parola riforma conosce molti sinonimi nel dizionario: cambiamento, correzione, revisione, miglioramento, trasformazione, innovazione, fino al significato più ampio di strutturazione di un nuovo ordine. Dove si colloca, in questa scala, la legge 214/11, ossia la riforma Monti-Fornero? Non certo come la creazione del nuovo ordine del sistema pensionistico. Si è giustificata la manovra con la prossimità di un baratro finanziario, ma non sono state chiarite le immediate necessità di cassa della spesa pensionistica e quindi non si è resa comprensibile la decisione della (temporanea?) sospensione dell’adeguamento al costo della vita per le pensioni oltre i 1.402 euro. Chiara è invece apparsa l’intenzione di diminuire la spesa pensionistica, passando totalmente al sistema contributivo di determinazione della pensione, e di dilazionarla aumentando le età e anzianità necessarie per il diritto alla pensione. E c’è un motivo preciso. Con il sistema contributivo la pensione spettante si determina sulla base del montante dei contributi versati durante l’intera vita lavorativa, capitalizzati al tasso medio nominale di crescita del pil degli ultimi cinque anni. Di fatto l’Inps è tornato alle origini: il sistema era infatti contributivo sin dal 1919, misurato dalle marche, differenziate per classi di retribuzione, che venivano apposte nel libretto personale del lavoratore per costituire la base di calcolo della pensione. L’Inps investiva i contributi in immobili da porre a reddito o in titoli del debito pubblico, per garantire la capitalizzazione e finanziare la pensione. Tutto funzionò per il meglio sino alla Seconda guerra mondiale: la conseguente crisi economica e monetaria e la svalutazione dei patrimoni mobiliari accumulati minò la tenuta finanziaria del sistema. Nel 1969 con la legge 153 si sostituì il sistema contributivo con quello retributivo, che misura la pensione sulle ultime retribuzioni in base all’anzianità, e il sistema finanziario di gestione a capitalizzazione con quello a ripartizione, che agisce in modo che la somma dei contributi degli attivi sia pari, nell’arco di uno o più anni, all’ammontare delle pensioni erogate nello stesso periodo. L’equilibrio funziona se, e solo se, il numero degli attivi e la loro retribuzione media crescono nel tempo con lo stesso tasso di aumento del numero dei pensionati e del valore medio delle pensioni medie. Dagli anni 90 il sistema retributivo gestito a ripartizione già non reggeva più, per colpa di posizioni sempre più onerose, pensionati sempre in più rispetto ai lavoratori, aumento della durata di vita e del numero delle pensioni di anzianità, calo degli occupati e della loro massa salariale e della produttività. Si rese così necessaria una successione di riforme, sino all’ultima Monti-Fornero che ha riportato il sistema quasi all’inizio della sua storia, con la variante di un sistema contributivo gestito (purtroppo) a ripartizione. Tale sistema infatti, svincolando la prestazione dalla retribuzione finale, costa meno allo Stato ma solo grazie al tasso di sostituzione che si abbassa, perché i contributi che la determinano riguardano l’intera vita retributiva e non solo gli ultimi anni, nonché per l’attuale crisi, che diminuisce la durata della vita lavorativa esposta a contribuzione. Una vera e propria riforma deve dare una risposta a sei quesiti. 1) Scegliere un altro tasso di accumulazione dei contributi. Lo Stato oggi risparmia la differenza tra tasso medio di crescita nominale del pil dell’ultimo quinquennio riconosciuto all’assicurato e il tasso corrente del debito pubblico. Quest’ultimo, più alto, è infatti più direttamente legato al tasso di inflazione, al costo reale del denaro e al rischio-Paese. Inoltre quello adottato nega l’adeguamento più diretto al costo della vita, misurato dalla crescita delle retribuzioni oltre che dalla progressione di carriera. 2) Chiarire bene la situazione dell’assicurato nell’estratto conto previdenziale. È la promessa dell’Inps per Natale: ma l’estratto conto previsto dall’articolo 6 della legge 335/95 deve indicare i contributi e la progressione del montante di ogni assicurato. Una rigorosa applicazione dei principi contabili internazionali vuole che tale estratto conto assuma l’evidenza di una «obbligazione per benefici definiti», per la quale si dovrebbe iscrivere a bilancio dell’Inps il valore del debito rappresentato dal montante accumulato. Se l’Inps facesse così, si avrebbe l’evidenza di un sistema contributivo a capitalizzazione, con il conseguente impegno di dover iscrivere a bilancio adeguate attività (investimenti) per bilanciare le cosiddette riserve tecniche, cioè il debito previdenziale latente correttamente iscritto. Per coerenza contabile si dovrebbe esplicitare il debito previdenziale nascosto del sistema, ovvero la differenza tra il valore attuale delle contribuzioni future e quello delle prestazioni pensionistiche dovute. Per la popolazione attiva a inizio 2012 e per le nuove generazioni tale differenza sarebbe nulla o quasi per le anzianità maturate dopo tale data, sempre che il tasso di capitalizzazione riconosciuto ai contributi versati sia pari a quello attribuibile, dopo la pensione, al montante contributivo. Emergerebbe, perché non coperto da contribuzione, il disavanzo pre-delle pensioni in essere e di quelle in futuro emergenti per gli attivi aventi diritto, per la gran parte, alla pensione retributiva e si darebbe al Paese la consapevolezza del peso del passato che pende sul sistema previdenziale. 3) Come passare a un vero sistema a capitalizzazione? Attenzione: è fantasia un immediato passaggio al sistema contributivo a capitalizzazione, perché i contributi degli attivi, una volta investiti, non sarebbero più disponibili per le pensioni in essere. Nel 2010 l’insieme dei contributi valeva 185,6 miliardi a fronte di pensioni correnti per 198,6 miliardi al netto dei trasferimenti della gestione assistenziale a carico dello Stato (Gias). Però, almeno in parte, tali contributi potrebbero essere investiti a garanzia delle riserve tecniche, per esempio, in uno speciale fondo di rotazione di medio periodo presso la Cdp, per gli investimenti di sviluppo del Paese. Si renderebbe così disponibile per la crescita del sistema un volume di investimenti legato alla durata (7-10 anni) di tale fondo, a fronte dei quali sarebbero emessi speciali titoli a garanzia pubblica, di pari durata e protetti dall’inflazione per la progressiva copertura delle riserve tecniche degli attivi, che otterrebbero la concreta promessa di un’equa accumulazione. Il volume dei contributi dovrebbe rimanere quasi costante nel tempo, mentre la spesa per le pensioni in essere e derivanti dal sistema retributivo antecedente il 1° gennaio 2012, dovrebbe progressivamente azzerarsi. Si tratta ovviamente di una manovra complessa di trasferimenti dello Stato, che richiederebbe una diversa trasparenza dei conti dell’Inps e comunque una parallela cadenza di riduzioni della spesa pubblica. 4) Portare in Europa il problema del debito pubblico implicito. Finora dibattito e polemiche comunitarie riguardano il rapporto tra debito pubblico esplicito e pil. Se si aprisse la discussione sul peso latente del debito pubblico implicito e sul fatto che tale debito merita un trattamento diverso, nell’interesse di tutti i Paesi europei, si scoprirebbe che il debito pubblico complessivo italiano è meno rilevante che nelle altre nazioni europee. Quando si avrà il coraggio di riconoscere l’esistenza del debito implicito e lo si escluderà a livello europeo dai vincoli già posti al debito pubblico esplicito, si attiveranno opportuni piani di risanamento di lungo periodo e in parallelo,
con i contributi previdenziali, investimenti europei per la crescita. 5) Quanta solidarietà e quante maggiori tasse per tutti? L’abbandono del retributivo ha mutato il regime di solidarietà. Prima era da una generazione all’altra, con il contributivo diventa tra pensionati di una stessa generazione, per le diverse durate di vita e il sostegno ai superstiti. In tale condizione non si può chiedere che i contributi degli attivi coprano oneri altrui, in quanto la contribuzione ha assunto la chiara natura di un risparmio individuale obbligatorio. Dal quadro generale dell’Inps si rileva che sono solo due le gestioni (il fondo dei parasubordinati e l’insieme delle casse professionali) che hanno saldi positivi tra contributi e prestazioni; che la gestione dei lavoratori dipendenti privati è abbastanza vicina al pareggio, se non dovesse coprire i disavanzi delle gestioni speciali (Trasporti, Elettrici, Telefonici e dirigenti ex Inpdai); che tutte le altre gestioni (agricoltori, artigiani e commercianti, clero eccetera) registrano elevati disavanzi in progressiva crescita. Ed emergono sciagurate leggerezze, come l’assorbimento del personale delle Ferrovie dello Stato nell’Inps, che dopo circa vent’anni vede 63 mila ferrovieri in attività a fronte di 237 mila pensionati e un disavanzo a carico della collettività. Ecco perché occorre attribuire bene gli oneri latenti del recente trasferimento dei dipendenti pubblici ex Inpdap . 6) Revisione dei livelli contributivi. Aliquote e imponibili diversi fanno variare la contribuzione previdenziale dal 9,19 al 33% (quella totale sino al 45,07%). Affrontare la loro unificazione (rinviata invece progressivamente al 2018) favorirebbe la diminuzione e l’omogeneizzazione del costo del lavoro. In un sistema a capitalizzazione individuale l’aliquota di equilibrio, cioè il risparmio obbligatorio, è determinabile eguale per tutti, dati il tasso di sostituzione desiderato all’età di vecchiaia e prudenti ipotesi sulla durata della vita attiva e sul tasso medio di capitalizzazione. Questi punti delineano una riforma seriamente strutturale. L’alternativa è restare con la Monti- Fornero o, peggio, con i tentativi parlamentari di sostituirla con un altro pasticcio, che glissa sul futuro per rimuovere il ricordo e i costi di un passato troppo euforico e generoso. (riproduzione risevata)