Di Buddy Fox
Intorno a Mediobanca si sono sempre decise le sorti del capitalismo italiano. Ai tempi di Enrico Cuccia tutto avveniva nel più stretto riserbo e con precisione chirurgica assoluta. Gli affari più intricati, le questioni più discusse trovavano soluzione senza che restasse altro da rimproverare a Cuccia se non l’opportunità politica della scelta, mai una nota di stile dissonante. Dalla morte del fondatore l’istituto ha via via perso mordente e persino statura, sino al declivio di questi giorni. La questione non è di secondaria importanza perché a Mediobanca si legano ancora le sorti di Generali, Unicredit, Rcs, Telecom. Il suo destino è quello della finanza italiana e non è possibile fare spallucce come se fosse una questione privata dell’azionariato dell’istituto. Per esempio, sarà anche perché al quinto anno della peggiore crisi finanziaria che si sia vista i riflessi sono un po’ appannati, resta il fatto che la gestione del caso Premafin-Ligresti somiglia più a una pièce teatrale che a una vicenda finanziaria di rilevanza nazionale. I personaggi che con le loro dichiarazioni a singhiozzo hanno appassionato le nostre letture, regolarmente smentiti dal progredire dell’inchiesta giudiziaria, sembrano assumere una fisionomia reale solo quando salta fuori il famoso pezzo di carta di cui i Ligresti rivendicavano l’esistenza, in un primo tempo invece negata da Piazzetta Cuccia. Tutto inizia con l’interrogatorio di Paolo Ligresti, il più aggressivo e disinvolto dei tre rampolli di Salvatore, il quale svela al pm Luigi Orsi l’esistenza di un accordo segreto tra la famiglia e Mediobanca, in base al quale in cambio della non ostilità delle loro holding personali all’operazione Unipol- FonSai avrebbero ricevuto prebende di vario tipo per un ammontare totale di 45milioni. I fatti vengono in seguito ribaditi al pm da Jonella, che afferma di essere stata presente all’incontro del 17 maggio durante il quale il padre e Alberto Nagel, amministratore delegato della banca, avrebbero siglato l’accordo in un originale unico affidato alla custodia dell’avvocato Cristina Rossello, segretario del patto di sindacato dell’istituto. Una deposizione dello stesso tenore viene quindi resa da Ligresti senjor. Una bomba, anche perché la presenza del segretario del patto di sindacato di uno dei due presunti firmatari avrebbe attribuito all’accordo il valore di un vero patto tra gentiluomini, dunque un valore più alto di quello che si attribuisce in quegli ambienti a un semplice contratto. Il pm convoca allora il legale milanese che, interrogata in merito, con grave imbarazzo si trincera dietro il segreto professionale. Una evidente ammissione che spinge il pm a disporre l’immediata perquisizione dello studio della Rossello nel corso del quale viene rintracciata una copia del documento privo, però, di firme. Il fatto indispettisce il pm, che si sente preso in giro dalla Rossello, anche perché nel frattempo Jonella Ligresti gli ha consegnato, nel corso di un secondo interrogatorio, una registrazione nella quale il legale milanese la rassicura sul fatto che lo scritto si trova custodito nelle sue mani. Nel contempo i vertici dell’istituto di Piazzetta Cuccia diffondono una nota che smentisce l’esistenza di un qualsiasi accordo e si chiarisce che la Rossello non è l’avvocato di Mediobanca nella vicenda Ligresti. Il giallo pare complicarsi, ma non per il pm Orsi il quale subito rimette sotto torchio la Rossello, chiedendo al gip Roberto Arnaldi di dispensarla, ai sensi dell’art. 200 del codice di procedura penale, dal segreto professionale. Questa volta l’avvocato, senza più via di scampo, consegna al pm l’originale del documento ove appaiono in bella evidenza le firme dell’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, e quella di Salvatore Ligresti. Figuraccia per il blasonato istituto milanese e avviso di garanzia per il suo amministratore. Ma questi non demorde e prima afferma (dato che la firma non è così esplicitamente qualificata nel documento) di averla apposta solo per presa visione e poi, non privo di un certo cinismo, di averla apposta sotto la minaccia di suicidio da parte di Salvatore Ligresti. Rincara però la dose Jonella, la quale riferisce al magistrato inquirente che prima dell’incontro l’amministratore delegato di Mediobanca avrebbe chiesto a tutti di lasciare i telefoni cellulari spenti fuori dalla stanza. L’inchiesta non è chiusa e il nuovo filone di indagine sulle manovre di Vincent Bolloré – finanziere bretone partecipante al patto di sindacato di Piazzetta Cuccia – rischia di costituire un altro brutto colpo per l’immagine di Mediobanca. Questi i fatti, per lo meno la parte di essi finita sulla stampa. La loro sintetica ricostruzione aveva però qui lo scopo di affrontare alcune ineludibili questioni di carattere comportamentale. La prima domanda viene spontanea: per quali ragioni il vertice di Mediobanca ha subito le pretese dei Ligresti, dato che il 20% di FonSai era finito nelle mani della Procura e le holding personali erano ormai fuori gioco, di fatto commissariate dalle banche? L’istituto che fu di Cuccia nella sua lunga storia le condizioni le aveva sempre dettate e mai subite. Perché questa volta sottostare al ricatto dei Ligresti, quasi che i 250 milioni che le banche avevano messo sul tavolo per il salvataggio di Imco e Synergia, le due holding della famiglia, non fossero già un regalo più che apprezzabile? Allo stato possiamo solo supporre che i Ligresti abbiano preteso di essere compensati soprattutto per i servigi prestati negli anni al sistema-Mediobanca attraverso la loro ragnatela societaria. La seconda domanda riguarda il comportamento incredibilmente approssimativo del vertice dell’istituto, e andrebbe rivolta soprattutto allo stuolo di avvocati che stanno intorno alla potente istituzione milanese, i quali hanno certamente supportato con i loro consigli – certamente non a buon mercato – le dichiarazioni pubbliche dell’istituto. E dire che un avvertimento il pm lo aveva già dato al sistema finanziario, chiedendo e ottenendo il fallimento delle due holding di famiglia. Come abbia potuto pensare l’avvocato Rossello che per fermare l’inchiesta sarebbe bastato opporre il segreto professionale, lei che fu allieva del professor Ariberto Mignoli (amico personale e consulente di Enrico Cuccia), che sostituì alla sua morte nel delicato ruolo di segretario del patto di sindacato, resta un mistero. Proprio lei che vanta incarichi da parte dei più importanti imprenditori italiani, tanto che attorno al suo studio è sorta una leggenda sul fatto che la somma dei suoi clienti fa la metà del pil italiano. Possibile che lei (e i suoi consulenti, tra i quali spicca il celebre avvocato Niccolò Ghedini) non conoscessero l’esistenza dell’art. 200 del codice di procedura penale? Possibile che abbiano pensato che il pm si sarebbe fermato davanti all’eccezione del segreto e non avrebbe tentato la perquisizione degli uffici, e che lì qualche conferma sarebbe stata trovata? Perché tanta stoltezza? Resta naturalmente da chiedersi perché Nagel abbia negato l’esistenza della carta se non aveva alcun significato contrattuale. Perché non dirlo subito, visto tra l’altro che la Consob aveva di fatto azzerato ogni ipotesi «risarcitoria » per i Ligresti, pena un’operazione assai più costosa per Unipol? Infine, una volta rivelata l’esistenza della carta, perché ricorrere a giustificazioni così flebili, quali la firma per ricevuta o per presa visione, quasi che a ricevere il documento fosse stato l’usciere della banca? Non sarebbe bastato dire sì, va bene, la carta c’è, ma qualunque ipotesi di accordo &egra
ve; comunque svanita dopo l’intervento della Consob? E davvero si è creduto alla minaccia di suicidio di Salvatore Ligresti, come se questi nella vita non avesse dimostrato la durezza necessaria ad affrontare un lungo periodo in galera e sprezzantemente ricordarlo come un soggiorno al grand hotel? Per non dire del divieto imposto da Nagel di partecipare con telefonini attivi alla riunione in cui la carta venne firmata, che se confermato costituirebbe un’altra macchia imbarazzante per l’istituto. L’unica cosa giusta che avrebbero potuto fare i vertici di Mediobanca era recarsi dal pm subito dopo la sigla della carta e denunciare i fatti, visto che il fumus del ricatto è evidente a tutti. Perché non lo hanno fatto? Sono stati sconsigliati? Se è così, almeno si tolgano la soddisfazione di licenziare seduta stante chi gli ha fatto fare una così pessima figura. (riproduzione riservata)