Paola Valentini
La vera riforma della previdenza italiana sarebbe rilanciare la crescita economica. «Per la ripresa delle adesioni e per dare soluzione alle attuali emergenze sociali è imperativo tornare a far crescere l’economia reale, in un contesto di norme più snelle e trasparenti e di conti pubblici in ordine», afferma Antonio Finocchiaro, presidente della Covip. Un Paese che cresce poco, o non cresce affatto, produce pensioni povere. E l’Italia è in questa situazione. Le ultime stime indicano per quest’anno un pil in calo del 2-2,4% e l’anno prossimo resta un’incognita. Una situazione allarmante che non interessa soltanto i giovani, ma anche chi è prossimo alla pensione. La riforma Fornero ha infatti introdotto il sistema contributivo per tutti, anche per chi rientra nel retributivo (i lavoratori che al 1° gennaio 1996 potevano contare su più di 18 anni di lavoro) che da quest’anno vedono calcolata la loro pensione col contributivo. In base a questo sistema la pensione che si otterrà non sarà più legata alle ultime retribuzioni, ma sarà determinata dai contributi versati alla previdenza pubblica che ogni anno vengono rivalutati in base alla variazione media del pil nominale degli ultimi cinque anni. Con il risultato che periodi di disoccupazione, che in una situazione come l’attuale diventano sempre più probabili, creeranno buchi contributivi difficili da colmare. E d’altra parte l’allungamento della vita lavorativa previsto dalla riforma Fornero fa accumulare più contributi ma di fatto è compensato dalla revisione dei coefficienti di trasformazione in rendita che abbassano l’assegno. Infatti anche i coefficienti utilizzati per convertire il capitale accumulato in rendita sono legati al pil, oltre che alla variabili demografiche. I nuovi coefficienti, che entreranno in vigore nel 2013 con validità triennale, hanno prodotto un abbassamento medio del 3% del tasso di sostituzione (ovvero della quota dell’ultimo stipendio che si percepirà come pensione). Senza dimenticare che questi coefficienti appaiono sovrastimati perché sono stati calcolati dal ministero del Lavoro considerando una crescita del pil pari all’1,5%, sulla base del fatto che tra il 1990 e il 2007 l’Italia è cresciuta in media dell’1,47% e ignorando la crisi economica degli ultimi anni. Di qui l’importanza della crescita economica per l’entità dell’importo della pensione pubblica. Una stagnazione prolungata dell’economia italiana taglierebbe l’assegno futuro dei lavoratori fino al 25%. Tanto più che questi ultimi devono già fare i conti con l’eredità del biennio 2008-2009, due anni di profonda recessione che ancora pesano sulle medie quinquennali del pil utilizzate per rivalutare i contributi. Come ricorda Finocchiaro: «Le stime di crescita del pil per il 2011 e per il 2012 appaiono insufficienti a compensare la caduta dell’attività registrata negli ultimi anni». Le crisi del biennio 2008-2009, rispettivamente -1,2% e -5,5%, unite alla scarsa crescita degli anni 2010- 2011, rispettivamente 1,8% e 0,4%, e alle previsioni per il 2012-2013 portano le medie quinquennali di questi e dei prossimi anni in terreno negativo». Fondenergia, il fondo pensione negoziale dei lavoratori del settore energia, stima che un punto percentuale di crescita in più del pil produce un tasso di sostituzione più elevato dell’8%. Come emerge in dettaglio dalle elaborazioni di Progetica, società di consulenza indipendente che ha effettuato per MF-Milano Finanza un’analisi dell’impatto del pil sull’assegno pensionistico in base alle nuove stime che prevedono una contrazione maggiore per l’economia italiana rispetto a sei mesi fa. «L’aggiornamento con i più recenti dati Istat ed Eurostat non modifica nella sostanza quanto avevamo già visto: il pil medio da qui alla data del pensionamento influenza notevolmente l’ammontare della pensione che potrà essere percepita. Variazioni di pil tra 0 e 2% infatti possono far variare il tasso di sostituzione anche di 25 punti percentuali», afferma Andrea Carbone di Progetica. Una situazione peraltro, quella italiana, comune ai maggiori Paesi sviluppati, visto che la crisi economica non risparmia nemmeno economie più solide dell’Italia. «Molti fanno notare come il pil potenziale di un Paese in via di progressivo invecchiamento, come il nostro, difficilmente possa attendersi crescite elevate. Anche al di fuori dei nostri confini, i dati di Paesi come gli Stati Uniti o la Germania difficilmente vedono in questi anni pil superiori ad esempio al 2%. La variabilità e lo sviluppo del pil è dunque un parametro da monitorare attentamente », aggiunge Carbone. Come emerge dalle simulazioni, un dipendente trentenne potrà aspettarsi un tasso di sostituzione del 51% con un pil a zero, mentre col pil al 2% la percentuale sale al 76%. Meno sensibile alla variazione della crescita economica è chi è più vicino alla pensione, dato che, come detto, una parte della pensione viene calcolata col metodo retributivo, sganciato dal pil. Per un cinquantenne dipendente infatti l’oscillazione del tasso di sostituzione va dal 68% col pil piatto all’81% col pil al 2%. Di qui l’importanza di mettere in piedi per tempo un piano di previdenza integrativa. Una scelta che però oggi in pochi in Italia hanno fatto, se è vero che alla fine del primo trimestre gli iscritti ai fondi pensione erano 5,6 milioni di lavoratori su una platea potenziale di circa 23 milioni. Non solo. C’è una quota crescente di lavoratori aderenti ai fondi pensione, circa 1 milione, che smette di versare per difficoltà economiche. «Le sospensioni contributive interessano il 20% delle adesioni, in aumento rispetto al 2010. Il fenomeno è complesso: include diverse tipologie di lavoratori e di causali; non di rado è il risultato di scelte individuali», afferma Finocchiaro. Senza dimenticare che i grandi assenti dalla previdenza complementare sono i giovani, quelli che più avrebbero bisogno di integrare l’assegno pubblico. Chi invece versa lo fa in modo insufficiente. Come evidenziano le analisi di Progetica che, accanto alle stime sul tasso di sostituzione, ha calcolato quanto i diversi profili di lavoratori potranno ottenere dal fondo pensione versando 2 mila euro l’anno, una cifra rappresentativa di quello che oggi mediamente si versa in Italia negli strumenti di previdenza complementare. «I dati contenuti nell’ultima relazione annuale Covip indicano infatti 2.320 euro per i fondi aperti e 1.700 per i Pip: per questo motivo è stato usato 2 mila euro come valore di riferimento per il versamento annuo », aggiunge Carbone. Le simulazioni mostrano che ad esempio con tali versamenti solo chi inizia in giovane età, e con linee bilanciate, può attendersi assegni integrativi superiori a 500 euro mensili. «Una situazione rilevante da un punto di vista sociale, perché appare evidente come il tenore di vita dei futuri pensionati non sempre potrà essere coerente con le attese e i desideri. La consapevolezza della necessità di pianificare per tempo il proprio futuro pensionistico appare dunque decisamente importante sia da un punto di vista individuale che collettivo», conclude Carbone. (riproduzione riservata)