di Roberta Castellarin Chi oggi ha 40 anni ed è un lavoratore dipendente andrà in pensione a 67 anni con il 60% dell’ultimo stipendio. Per un suo coetaneo che ha un lavoro autonomo il tasso di copertura scende al 41% dell’ultimo stipendio. Questa è la proiezione elaborata dalla società di consulenza indipendente Progetica sulla base delle attese sul futuro andamento del pil e dei nuovi coefficienti di trasformazione in rendita che entrano in vigore nel 2013 e che saranno successivamente aggiornati. Questo perché con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo non è più possibile sapere con certezza quando si andrà in pensione e con quale assegno. Il quando dipende dall’evoluzione della speranza di vita, mentre la rendita è determinata in base a un insieme di variabili, quali l’andamento del pil, la speranza di vita, l’evoluzione della carriera lavorativa. «Per comprendere il metodo di calcolo utilizzato per determinare una pensione contributiva, quella introdotta per tutti i lavoratori dipendenti e autonomi dal 1 gennaio 2012 dal ministro Elsa Fornero, è necessario descrivere e approfondire la conoscenza del montante individuale e del coefficiente di trasformazione», spiega Cristiano Fiumara, responsabile dell’ufficio sviluppo previdenziale Helvetia, «il montante individuale è la somma dei contributi accantonati dal lavoratore nella sua vita lavorativa. Il montante viene alimentato ogni anno, a partire dal 1996, con un accantonamento di contributi pari a una aliquota di computo del 33% per i lavoratori dipendenti e di circa il 20% per i coltivatori diretti, gli artigiani e i commercianti. Il montante individuale viene rivalutato al 31 dicembre di ogni anno su base composta, eccezion fatta per la contribuzione dello stesso anno, al tasso di capitalizzazione pari alla variazione media del pil nominale negli ultimi cinque anni». Il coefficiente di trasformazione è il parametro applicato sul montante individuale per il calcolo della pensione annuale. Il coefficiente varia in base dell’età dell’assicurato e alla speranza di vita al momento del pensionamento. È quindi più basso quanto più si anticipa l’entrata del lavoratore in pensione. «Familiarizzare con i coefficienti di contribuzione non è cosa semplice», aggiunge Fiumara. «Quelli nuovi, pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale il 24 maggio scorso, permettono a chi è vicino alla pensione di sapere quale sarà il suo assegno, consapevoli del fatto che tali parametri verranno calcolati sulla base di variabili demografiche e dell’andamento del pil. I nuovi coefficienti risultano più bassi del 3% rispetto a quelli del 2010 per via dell’allungamento della vita media ed entreranno in vigore nel 2013 e saranno validi per almeno tre anni». Ma va detto che questi nuovi coefficienti sono stati calcolati dai tecnici del ministero del Lavoro e della Ragioneria dello Stato assumendo un pil dell’1,5%, basandosi sul fatto che tra il 1990 e il 2007 la variazione è stata dell’1,47% e inglobando completamente la recessione in cui è caduta l’Italia tra il 2008 e il 2011 e le basse prospettive di crescita economica previste per i prossimi anni. Lo stesso Alberto Brambilla, presidente del nucleo di valutazione della spesa previdenziale al ministero del Lavoro, ha più volte sottolineato la necessità di aggiornare le stime del pil perché quelle attuali sono troppo elevate, considerato il contesto economico. Nel 2013 ci sarà anche un incremento dei requisiti anagrafici e contributivi necessari per ottenere la pensione di vecchiaia e anticipata (66 anni e tre mesi per i lavoratori dipendenti e autonomi e 62 anni e tre mesi per le lavoratrici del settore privato). Il prossimo ricalcolo scatterà nel 2016, poi dal 2019, l’anno dell’allineamento a 67 anni per la pensione di vecchiaia per tutti, i successivi aggiornamenti saranno ogni due anni e coincideranno con gli adeguamenti previsti dalla riforma che agganciano i requisiti di accesso al pensionamento all’aspettativa di vita. Più l’orizzonte si sposta in avanti, più questi calcoli diventano fondamentali perché la quota-parte di metodo contributivo diventa sempre più significativa rispetto al retributivo. Uno scenario che fa emergere con chiarezza la necessità di attrezzarsi con una pensione di scorta. Eppure la previdenza complementare proprio non decolla. Come rivela anche la relazione annuale della Covip. «Gli iscritti sono il 24,1%, ben lontani dall’obiettivo governativo del semestre di silenzio- assenso sul tfr del 2007, che era il 40%», sottolinea Andrea Carbone di Progetica. «Un dato significativo da un punto di vista sociale: tre lavoratori su quattro non stanno pianificando il proprio futuro previdenziale attraverso le forme vitalizie dei fondi aperti, chiusi e pip. Tanti sono i potenziali nuovi aderenti che necessitano di pianificazione previdenziale e quindi il mercato dovrebbe intercettare questa esigenza». La crisi economica non facilita lo sviluppo del settore. «In questa fase delicata di crisi la previdenza complementare ha anche svolto un ruolo importante di ammortizzatore sociale», dice Fiumara. In particolare, sempre dalla relazione Covip emerge che sono sempre più numerosi i lavoratori iscritti che hanno smesso di versare. «Circa il 20% degli iscritti alla previdenza complementare non versa più i contributi», segnala Carbone. «Molti fanno notare che tale fenomeno non è solo legato alla crisi economica, ma anche a comportamenti di sottoscrizione una tantum che non presuppongono una reale pianificazione previdenziale, ma il dato resta preoccupante». Un altro tema chiave del mercato italiano è rappresentato dal fatto che nel 2011 praticamente tutti gli iscritti ai fondi al momento della pensione hanno chiesto il capitale e non la rendita. «Il concetto di rendita è poco diffuso nel nostro Paese», commenta Carbone. «Coloro che oggi convertono in rendita la propria forma previdenziale sono un numero marginale rispetto a coloro che chiedono il capitale. L’auspicio naturalmente è che i pensionati del futuro siano più sensibili alla necessità di coprire parte delle proprie esigenze pensionistiche per via vitalizia, al fine di tutelarsi dal “rischio buono” di vivere sempre più a lungo e in buona salute grazie ai progressi della medicina». In sostanza, appare evidente come il mercato della previdenza complementare abbia necessità e potenzialità di crescita elevatissime. «Sembra peraltro esserci spazio per sperimentare modalità di comunicazione, sensibilizzazione, educazione e pianificazione previdenziale che si distacchino dai modelli fin qui adottati in prevalenza che, numeri alla mano, si sono dimostrati solo parzialmente efficaci per raggiungere gli obiettivi auspicati», dice Carbone. Intanto il decreto legge sulla spending review approvato nella notte di giovedì 5 luglio dal governo prevede la soppressione dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo e della Commissione di vigilanza sui fondi pensione. Le funzioni di Isvap e Covip, spiega il comunicato di Palazzo Chigi, «saranno accorpate nell’Ivarp, che nasce come unico istituto per la vigilanza sulle assicurazioni e sul risparmio previdenziale» e sarà operativo entro 120 giorni dall’entrata in vigore del decreto. «Il nuovo ente funzionerà in stretta sinergia con le strutture della Banca d’Italia, così da assicurare una piena integrazione dell’attività di vigilanza nei settori finanziario, assicurativo e del risparmio previdenziale, anche attraverso un più stretto collegamento con la vigil
anza bancaria ». Una novità che non piace ad Assofondipensione. Il segretario dell’associazione Flavio Casetti commenta così la notizia: «È come mettere la volpe a guardia del pollaio ». Ma per i fondi pensione sono in arrivo novità anche dal punto di vista delle politiche d’investimento. A fine giugno si è conclusa infatti la fase di consultazione per il decreto interministeriale sui limiti di investimento dei fondi pensione e sulla regolamentazione dei conflitti d’interesse. Il nuovo provvedimento del ministero dell’Economia aggiorna e rivede il decreto del ministero del Tesoro del 21 novembre 1996, n. 703. L’obiettivo è quello di adeguare la regolamentazione al mutare dei tempi finanziari e all’evoluzione normativa stessa alla luce del recepimento nel nostro ordinamento della direttiva europea sui fondi pensione. Quali sono le linee guida? La premessa che viene posta è che la revisione della regolamentazione esistente, partendo dall’obiettivo di perseguire gli interessi degli aderenti e dalla considerazione che l’investimento previdenziale ha una natura peculiare e differente da quello puramente finanziario, si muove verso una maggiore attenzione alle capacità gestionali e ai processi decisionali dei fondi pensione e alla loro necessaria maggiore responsabilizzazione nel controllo e gestione dei rischi, da effettuare attraverso il ricorso a strumenti e modelli di gestione congruenti. In tale prospettiva si tende a superare la filosofia della disciplina esistente, incentrata su precisi limiti quantitativi agli investimenti con una esplicitazione puntuale delle tipologie di attività finanziarie in cui il fondo può investire e per ogni categoria di strumenti la determinazione delle percentuali massime di investimento a una invece più prettamente qualitativa. In sostanza si dà maggiore libertà di azione, ma in cambio si chiede ai fondi di dotarsi di una governance adeguata. (riproduzione riservata)
E i comparti negoziali vincono la sfida dei costi
L’architettura dei costi incide in maniera sensibile sulla prestazione erogata alla fine del periodo di accumulo dalle forme previdenziali integrative. La Covip è da sempre molto interessata al tema favorendo un’estrema trasparenza del mercato. Sul piano generale della confrontabilità e dell’informativa in sede di adesione la disciplina vigente appare soddisfacente. Tutte le voci di costo sono riportate nella nota informativa e sono poi vietate le strutture di costo (come in particolare commissioni di entrata elevate) che ostacolano la mobilità tra fondi e rendono più difficili i confronti. È obbligatorio poi il calcolo e la pubblicazione dell’Indicatore sintetico di costo (Isc). È un indicatore che fornisce una rappresentazione immediata dell’incidenza, sulla posizione individuale maturata, dei costi sostenuti dall’aderente durante la fase di accumulo. È calcolato in modo analogo per tutte le forme di previdenza complementare di nuova istituzione. In particolare, è dato dalla differenza tra due tassi di rendimento (entrambi al netto del prelievo fiscale): quello relativo a un ipotetico piano di investimento che non prevede costi e il tasso interno di un piano che li considera. L’Isc viene riportato per differenti periodi di permanenza (2, 5, 10 e 35 anni) poiché alcuni costi hanno un impatto che diminuisce nel tempo al crescere della posizione individuale maturata. Nel calcolo si fa riferimento a un aderente tipo che effettua un versamento annuo di 2.500 euro e si ipotizza un tasso di rendimento annuo del 4%. Rimangono esclusi tutti i costi che presentano carattere di eccezionalità o che sono collegati a eventi o situazioni non prevedibili a priori. Sul sito della Covip viene pubblicato l’elenco degli Isc dei fondi negoziali, dei fondi aperti e dei pip. Molto interessanti le evidenze contenute nella recente Relazione annuale dell’Autorità di vigilanza. Nel confronto con il 2010 i costi medi si mantengono stabili. Nei fondi pensione negoziali l’Isc è dell’1,0% per periodi di partecipazione di 2 anni e si abbassa allo 0,2% per periodi di 35 anni; per i fondi aperti passa dal 2 all’1,1%; per i Pip dal 3,6 all’1,5%. Ai valori medi dell’Isc corrisponde tuttavia un’ampia dispersione dei costi applicati da ciascuna forma pensionistica complementare. La Covip ha operato allora un’analisi più articolata che tenesse conto, da un lato, dell’intera distribuzione dei costi, dall’altro, dei diversi segmenti di mercato nei quali le forme operano in concorrenza fra loro. Sul segmento delle adesioni collettive operano fondi pensione negoziali e fondi aperti; a questi ultimi è possibile aderire su base collettiva per il tramite di accordi aziendali fra lavoratori e imprese ovvero accordi stipulati direttamente dal datore di lavoro con singoli dipendenti. Circa la metà dei fondi negoziali più convenienti risulta caratterizzata da valori di costo inferiori rispetto ai dati minimi registrati dai fondi pensione aperti. I rimanenti fondi negoziali si collocano in un intervallo in cui si posizionano anche i migliori fondi aperti. Le condizioni praticate da questi ultimi risultano competitive laddove sia prevista l’emissione di differenti classi di quota. Quanto al segmento delle adesioni individuali, sono i fondi pensione aperti e i Pip a essere in concorrenza fra loro. I Pip risultano mediamente più onerosi dei fondi pensione aperti, anche per tipologia di linea di investimento. Le linee azionarie e bilanciate, le più costose per entrambe le tipologie di forma pensionistica, registrano i differenziali maggiori (lo scostamento è di circa 1,5% sui 2 anni e si mantiene particolarmente elevato, circa un punto percentuale, sui 35 anni); valori minori si riscontrano nelle linee obbligazionarie (intorno allo 0,2% sui 35 anni). Per quanto riguarda le linee garantite, la differenza tra i costi medi dei Pip e dei fondi pensione aperti è particolarmente elevata su periodi brevi: 1,6% sui 2 anni, che si riduce allo 0,4% sui 35 anni. La maggiore o minore economicità della forma pensionistica non sembra rivestire un ruolo preponderante nelle scelte degli iscritti. Guardando agli ultimi tre anni, le adesioni individuali ai fondi pensione aperti sono cresciute del 14% mentre quelle ai Pip sono più che raddoppiate, sospinte da modalità di collocamento più aggressive anche in relazione alla tipologia personalizzata di servizio offerto. Va tuttavia osservato che circa il 35% della crescita degli iscritti registrata dai Pip negli ultimi tre anni è andato a vantaggio di una impresa di assicurazione che può avvalersi di una rete distributiva diffusa in modo capillare sul territorio. (riproduzione riservata) Carlo Giuro