La crisi non morde i fondi sovrani. Anzi. Secondo il Sovereign wealth fund annual report 2011, realizzato dal Sovereign investment lab del centro Baffi della Bocconi, il 2011 è stato infatti un anno di forte ripresa per gli investimenti diretti e per la trasparenza dei fondi sovrani. Nel dettaglio i 31 fondi monitorati dal rapporto hanno dato notizia, nel corso dell’anno, di 237 investimenti diretti (+15% sul 2010) per un valore di 80,9 miliardi di dollari (+42%). Il numero di operazioni rappresenta un record, mentre il loro valore è ancora inferiore a quelli registrati nel 2008 e 2009. «La crescita», secondo il direttore del Sovereign investment lab, Bernardo Bortolotti, «può essere attribuita a quattro fattori: la maggior attenzione alle attività di questi fondi, che porta a una più ampia diffusione delle informazioni che li riguardano; la maggiore trasparenza che il settore si è imposto a seguito della sottoscrizione dei Santiago principles; la ridotta concorrenza dovuta alla crisi finanziaria che ha messo in difficoltà molti altri operatori; il fatto che i fondi stiano riportando al proprio interno la gestione di capitali che erano affidati, fino a poco tempo fa, agli asset manager e che sfuggivano, quindi, all’osservazione».
L’apparente preponderanza del settore finanziario (59 operazioni per una spesa pari al 43% del totale) è dovuta, in realtà, soprattutto alla necessità di ricapitalizzare le banche domestiche che i fondi sovrani, negli scorsi anni, hanno contribuito a salvare dal fallimento. Lo dimostra lo sbilanciamento tra il valore degli investimenti domestici (il 77,9% è andato al sistema finanziario) ed esteri (un 25,1% che ne fa comunque il primo settore di interesse, ma poco distante dal 24% degli idrocarburi o dal 20,8% del real estate). Il real estate di mercati consolidati come quelli di New York e Londra ha rappresentato il «bene rifugio» dei fondi sovrani, che si sono riaffacciati su questi mercati dopo un periodo di trascuratezza. Le infrastrutture e le commodity (soprattutto idrocarburi per i fondi dei Paesi che non traggono la loro ricchezza dal petrolio) hanno assolto alla necessità di diversificazione. È da interpretare con attenzione anche il dato che vede i paesi industrializzati in cima agli interessi dei fondi sovrani, con il 55% del valore degli investimenti. In realtà l’attenzione dei fondi si è concentrata sulle imprese che coniugano le garanzie di governance garantite dalla localizzazione nei paesi Ocse a una forte proiezione sui mercati emergenti, che sono il vero obiettivo degli investitori. Con una notazione: i fondi dei paesi asiatici, nei loro rapporti con i mercati occidentali, hanno favorito quello degli Stati Uniti, i fondi mediorientali l’Europa. Differenze geografiche a parte, è chiaro anche all’Italia che l’attivismo dei fondi sovrani possa e debba essere oggi visto come una possibilità in più per le aziende italiane anche nel reperimento di capitali freschi da poter utilizzare per crescere e innovare. Non a caso il presidente della Cassa Depositi e Prestini, Franco Bassanini, intervenuto a un convengo sul tema, ha invitato i grandi capitali a far capolino in Italia. Soprattutto nei grandi progetti infrastrutturali che vedono la Cdp in prima linea. Come le reti di nuova generazione che rappresentano un tassello fondamentale per la costruzione della crescita del Paese. Bassini, nel dettaglio, ha sottolineato come la Cdp non abbia un atteggiamento competitivo, ma piuttosto collaborativo nell’intento di alimentare la crescita grazie alla modernizzazione delle infrastrutture. Il ruolo della Cassa, ha sottolineato il presidente, è «fare da facilitatore, da catalizzatore» indipendentemente dal fatto che l’azienda «si chiami Telecom, Metroweb o Vodafone». Un tema particolarmente caldo, quello dei capitali necessari alle aziende italiane, come ha evidenziato Maurizio Tamagnini, numero uno del Fondo strategico italiano, che ha posto l’accento sull’importanza di alcuni settori come quello delle utility.