Giovanni Pons
Con il fallimento delle holding immobiliari della famiglia Ligresti la battaglia in corso per il controllo della Fondiaria Sai, che infuria ormai da circa sei mesi, assume contorni nuovi e imprevedibili. Anche e soprattutto per gli assetti ed equilibri del sistema finanziario italiano, di cui Fondiaria ha sempre fatto parte e dal quale è sempre stata protetta come una figlia minore (rispetto a Generali) ma molto apprezzata. E dunque c’è da chiedersi per quale motivo una sua eventuale uscita dalle mura dei poteri forti che l’hanno sempre circondata sarebbe in grado di produrre sconvolgimenti così radicali rispetto al passato. Tradotto in pratica c’è da chiedersi perché mai Mediobanca, già controllante di fatto di Generali, stia conducendo una campagna così determinata, insieme a Unicredit, per far confluire la Fondiaria dentro un’altra compagnia di assicurazioni, la Unipol, con la quale ha condiviso ben poco in passato. A sentire i diretti protagonisti si tratterebbe soltanto di una questione di sicurezza economica e finanziaria: la fusione tra le due compagnie produrrebbe un nuovo player importante, secondo solo a Generali, in grado di crescere e rafforzarsi attraverso un piano industriale affidato a un manager, Carlo Cimbri, che negli ultimi anni ha dimostrato di saper navigare bene nel mondo delle assicurazioni. La fusione tra le due compagnie, Fonsai e Unipol, consentirebbe inoltre di raccontare una storia di ristrutturazione e crescita al mercato chiamato a mettere i quattrini
perché il piano abbia successo. Poco importa, secondo questa filosofia, se la testa dei primi due gruppi assicurativi del paese, cioè Generali e Fonsai-Unipol, sia riconducibile allo stesso blocco, Mediobanca e Unicredit. L’Antitrust vigilerà, e in effetti lo sta facendo, affinchè non vi siano legami tra le diverse entità economiche tali da limitare la concorrenza sui mercati. Spiegata in questi termini sembrerebbe molto semplice. In realtà è tutto molto più complicato. E per capire la vera posta in gioco occorre mettersi nei panni dei manager di piazzetta Cuccia. La Fondiaria è infatti sempre stata un gioiellino cui Enrico Cuccia ha tenuto tantissimo. Quando Camillo Debenedetti andò a comunicargli che ne aveva conquistato il controllo insieme alla Ferruzzi, Cuccia non lo fece neanche sedere e lo minacciò che avrebbe perso tutto il suo patrimonio in quell’avventura. La stessa attenzione all’oggetto la ebbe il delfino Vincenzo Maranghi nel 2002 quando, ormai scomparso Cuccia, si palesò il pericolo per Fondiaria di finire sotto l’ombrello degli Agnelli, che insieme ai francesi di Edf stavano per lanciare l’Opa sulla Montedison. In una notte Maranghi, Pagliaro e Nagel la sfilarono dal portafoglio e la consegnarono alla Sai di Salvatore Ligresti, un imprenditore-costruttore su cui si poteva fare più affidamento rispetto a torinesi e francesi. Ma soprattutto Ligresti era allora legato a doppio a filo a Mediobanca da rapporti finanziari, tra partecipazioni e affidamenti, dunque più facile da condizionare se sgarrava dalla linea della casa madre. Poco importa se tale passaggio di controllo non comportò il lancio dell’Opa a favore di tutti gli azionisti: sia Mediobanca sia Ligresti, infatti, hanno sempre considerato il mercato alla stregua di una mucca da mungere. Il primo obbiettivo è sempre stato la capacità di tenere sotto controllo il sistema a cui si prestava assistenza finanziaria in cambio di laute commissioni e dividendi. Tuttavia, col passare degli anni, Ligresti è andato complicandosi la vita, prima prestando il fianco alla defenestrazione di Maranghi voluta e portata avanti da Geronzi, Profumo e Bazoli; poi applicando alla Fonsai uno stile di gestione assai famigliare e alla fine molto discutibile, stile che ha portato la compagnia a dover sopportare perdite inimmaginabili per operazioni fatte nell’esclusivo interesse degli azionisti di maggioranza e sulle spalle degli assicurati. Ma finché Geronzi è stato presidente di Mediobanca, cioè fino all’aprile 2011, risultava difficile far pagare il conto alla famiglia Ligresti anche considerando l’asse di potere che l’univa al governo Berlusconi allora in carica. Si è però riusciti a respingere un nuovo attacco dei francesi, questa volta della compagnia d’Oltralpe Groupama, che appoggiandosi all’azionista forte di Mediobanca Vincent Bollorè aveva cercato l’affondo vincente. Ma, grazie alla Consob, l’incursione è stata sventata con la discesa in campo dell’Unicredit, istituto già fortemente esposto con il gruppo Ligresti per via delle operazioni avallate nel decennio precedente dalla Capitalia di Geronzi. Insomma, solo nella seconda parte del 2011 sono maturati i tempi affinché la Fondiaria venisse sfilata dalla galassia Ligresti per trovare un approdo sicuro ma sempre sotto il cappello protettivo di Mediobanca. L’operazione Unipol dal carattere “industriale” assolve dunque anche all’obbiettivo di un regolamento di conti tra i poteri finanziari. Vista in questo quadro la Fondiaria non sarà mai attrezzata per attaccare la leadership di Generali, piuttosto si punterà a far coesistere le prime due realtà assicurative sotto lo stesso ombrello protettivo, continuando a produrre interessi e commissioni a vantaggio dei bilanci di piazzetta Cuccia. E soprattutto non far cadere le partecipazioni sensibili custodite nel portafoglio di Fondiaria — il 3,8% di Mediobanca, l’1,1% di Generali, il 4,5% di Pirelli, il 4,2% di Gemina, il 5,4% di Rcs — in mani estranee e non controllabili. Partecipazioni che dal 2005 al 2010 hanno prodotto 730 milioni di perdite calcolate a valore di carico e più di un miliardo a valori di mercato. L’Unipol ha già assicurato che le partecipazioni nei salotti a loro non interessano e dunque ne deriva che il timone del potere rimane in piazzetta Cuccia. Ottima ragione per preferire Unipol e contrastare con ogni forza l’offerta alternativa di Matteo Arpe e Roberto Meneguzzo: un banchiere e un finanziere che non ragionano in un’ottica di salvaguardia del sistema. Far gestire Fondiaria con il solo intento di farla crescere in sintonia con i mercati finanziari per la Mediobanca di oggi sarebbe un salto nel buio impossibile da digerire. Vorrebbe dire rompere la campana di vetro, offuscare l’immagine di Mediobanca, mettere il sistema in pericolo. 1 2 Qui sopra, l’ad di Unipol, Carlo Cimbri (1) e l’ad di Mediobanca Alberto Nagel (2)