Paola Valentini
A un trentenne lavoratore dipendente basterebbe mettere nel fondo pensione dai 4 ai 7 euro al giorno per raggiungere la stessa pensione di suo padre, ovvero l’80% dell’ultimo stipendio. Un autonomo dovrebbe accantonare nel salvadanaio previdenziale dagli 8 ai 14 euro al giorno per arrivare allo stesso obiettivo. Cifre non astronomiche se si considera che nel 2011 gli italiani in media hanno speso per giochi e scommesse 3,5 euro al giorno, mentre il versamento medio pro capite ai fondi pensione è stato di 1,8 euro soltanto. La rendita di scorta è diventata da quest’anno ancora più necessaria se si vuole mantenere in pensione lo stesso tenore di vita, visto che la riforma Monti- Fornero ha introdotto il sistema contributivo per tutti seppur in forma pro-quota per chi aveva il sistema retributivo e misto, due regimi che comunque non valgono per i giovani. Non è un caso che proprio nei giorni scorsi sia partita una campagna informativa firmata dal ministero del Lavoro e dall’Inps (in questa iniziativa alleati dopo gli attriti sul fronte esodati) che punta a informare i lavoratori sulle conseguenze della riforma. La loro pensione pubblica infatti sarà determinata dai contributi versati e non più sulla base dello stipendio medio, peraltro soltanto degli ultimi anni di lavoro. Una regola, quest’ultima, che ha garantito pensioni molto generose e in molti casi anche sganciate dai contributi effettivamente versati. «Per esempio, un lavoratore che avesse dichiarato 10 per 25 anni e 1.000 negli ultimi 10 anni avrebbe avuto una pensione pari al 70% di 1.000, ovvero 2% moltiplicato per 35 anni», spiega Alberto Brambilla, presidente del nucleo di valutazione della spesa previdenziale presso il ministero del Lavoro. Questa semplice regola di ieri, che valeva per i padri e i nonni dei giovani di oggi, permetteva di costruire la pensione negli ultimi anni di lavoro. «Ora invece il calcolo della pensione dipende dalla somma dei contributi versati e quindi la rendita non si può costruire negli ultimi anni di lavoro, aggiunge Brambilla. «Se non si è sempre versato regolarmente, non si recupera più e la pensione sarà modesta; inoltre per tutti coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1998 lo Stato non darà più integrazione al minimo e maggiorazioni sociali delle pensioni, se non avranno versato a sufficienza dovranno lavorare anche da vecchi». Da qui la necessità di rivolgersi alla previdenza complementare per rimpinguare gli assegni pubblici destinati a essere sempre più magri per via della bassa crescita economica dell’Italia. I contributi versati alla previdenza pubblica sono rivalutati in base al pil quinquennale. Non solo. Anche i coefficienti utilizzati per convertire il capitale accumulato in rendita sono legati al pil, oltre che alla variabili demografiche. Un Paese in recessione, o comunque a bassa crescita, produce quindi pensioni povere. I nuovi coefficienti che entreranno in vigore nel 2013 con validità triennale hanno prodotto un abbassamento medio del 3% del tasso di sostituzione (ovvero della quota dell’ultimo stipendio che si percepirà come pensione). Come evidenziano le stime di Progetica (società di consulenza indipendente in educazione e pianificazione finanziaria), un trentenne dipendente oggi può aspettarsi di ricevere dall’Inps il 61% dell’ultimo stipendio, per un autonomo questa quota scende al 44%. Progetica ha quindi stimato i versamenti necessari per raggiungere un tasso di sostituzione dell’80%, la stessa che il sistema retributivo permetteva di ottenere con facilità. L’analisi è stata differenziata tra linea garantita e bilanciata. Nel primo caso il versamento è maggiore perché si assumono tassi di rendimento inferiori a quelli che in media possono ottenere i comparti bilanciati. Con un’avvertenza. «Tutte le stime sulla previdenza pubblica ipotizzano continuità lavorativa fino ai 68-69 anni; qualora vi fossero buchi contributivi, le necessità, naturalmente, aumenterebbero », spiega Andrea Carbone di Progetica. Le elaborazioni, basate sulle ipotesi demografiche, macroeconomiche e retributive riportate in legenda, sono state effettuate per 30-40-50enni, maschi e femmine, dipendenti ed autonomi. Le stime confermano che il tempo è un prezioso alleato: prima si inizia un piano di previdenza complementare, minore sarà il versamento necessario. Allo stesso modo anche i mercati, soprattutto per chi ha di fronte a sé molti anni di versamenti, possono aiutare, come mostrato dalla differenza tra linee garantite e bilanciate. «Il rischio, in previdenza, non è necessariamente un fatto negativo: ciò che più conta è la prestazione all’epoca del pensionamento, non le oscillazioni di breve periodo. In tutti i casi, l’indice di efficienza che mette a confronto la somma delle rendite attese a vita media attesa con la somma dei versamenti necessari è comunque superiore a 1: anche senza fiscalità, l’operazione è efficiente da un punto di vista finanziario », sottolinea Carbone. Altro tema interessante sul quale riflettere è l’obiettivo. Le elaborazioni prendono a riferimento, per semplicità, l’80% dell’ultima retribuzione lavorativa fissata in 36 mila euro annui. «Per stabilire un obiettivo coerente con le proprie necessità, le best practice nazionali e internazionali dell’educazione previdenziale suggeriscono anche altre strade, come ad esempio quella di definire la propria necessità a partire dal tenore di vita desiderato all’epoca del pensionamento, definibile ragionando ad esempio sul luogo della pensione che può essere città, campagna o anche l’estero, sulle spese necessarie, si costi degli hobby, dei viaggi, e non ultimo sui numero di componenti familiari», conclude Carbone. (riproduzione riservata)