Marco Panara
I panni sporchi non si lavano più in famiglia. Le stanze del potere hanno le finestre aperte e non ne esce aria profumata. Le stanze in questione sono quelle di Piazzetta Cuccia, un tempo tempio della finanza discreta, spesso dura ma insindacabile, potentissima e rispettatissima. In quelle stanze di amministratori delegati, presidenti e dirigenti (di altre imprese e qualche volta anche di casa) ne sono stati licenziati parecchi, spesso sui due piedi. Ma c’è una novità: ai tempi di Cuccia il potere di Mediobanca e quello personale del suo leader erano tali che la risposta non poteva che essere “sì signore”, seguita da una firma in calce a dimissioni già ordinatamente scritte. Ora non è più così. Piazzetta Cuccia non è più un tempio (e questa è una buona cosa) e chi siede lì dentro non è più tanto più forte di chi viene licenziato. Sono tempi nuovi, in cui la fragilità del paese si riverbera su quella delle classi dirigenti e nessuno ha più tutte la carte in mano. Il licenziamento del ceo di Generali Giovanni Perissinotto da parte del presidente di Mediobanca Renato Pagliaro e dell’amministratore delegato Alberto Nagel, ne è la prova. Perissinotto, convocato mercoledì scorso in Piazzetta Cuccia quelle dimissioni non le ha firmate e anzi ha risposto con una lettera di fuoco ai consiglieri nella quale attacca Mediobanca con una presa di distanza senza ritorno. Si è arrivati così alla conta dei voti nel consiglio di amministrazione di sabato. Tante sono le cose sgradevoli e tante le vittime in questa vicenda. La prima vittima è la governance. Alla faccia degli articoli 36, dei conflitti di interesse, dell’obbligo a non ricoprire multiple poltrone, dell’indipendenza dei manager e di quant’altro si va predicando, il capo di una società quotata con larghissimo flottante viene convocato dall’azionista che ha il 14 per cento e invitato a prendere la porta. Tutto questo un mese dopo l’assemblea degli azionisti e 11 mesi prima della scadenza naturale dell’incarico. La seconda vittima è la trasparenza: di questo licenziamento non si conosce il perché. Non risulta che Perissinotto abbia fatto operazioni fuori dal suo mandato senza l’approvazione del consiglio, né che ci siano stati comportamenti palesemente scorretti, i soli due casi che renderebbero comprensibile e giustificato un licenziamento in tronco. La ragione, è stato detto, è la quotazione del titolo, che in effetti è assolutamente insoddisfacente, come peraltro quella di moltissime società italiane, e in particolare quelle finanziarie. La ragione principale della bassa capitalizzazione di banche e assicurazioni è nota: il rischio Italia in generale e i titoli di Stato italiani in portafoglio in particolare. Generali ne ha per 50 miliardi e in un consiglio di amministrazione, qualche tempo fa, c’è stata una animata discussione tra alcuni membri che sostenevano la necessità di liberarsene e Perissinotto, contrario a questa scelta per due ragioni: la prima è che la vendita di quei titoli prima della scadenza, vista la situazione di mercato, avrebbe comportato perdite rilevanti; la seconda che l’uscita di Generali dal debito pubblico italiano sarebbe stato un pessimo segnale al mercato con un danno per il paese e alla fine per l’azienda stessa. Nella sua lettera di giovedì scorso ai consiglieri Perissinotto ribadisce il concetto: «Mi aspetto di vedermi contestato il fatto che le performance dell’azione Generali sono state negli ultimi tempi insoddisfacenti. E io non posso che condividere questo punto. Tuttavia anche la più superficiale delle analisi dirà che questo non è il risultato di errori di gestione, ma è direttamente legato alla percezione dei mercati della nostra storica, attuale e significativa esposizione verso l’Italia e al fatto che siamo stati e rimaniamo leali sostenitori del debito sovrano del Governo italiano». Sappiamo tutti che c’è dell’altro. Ci sono le ombre sul salvataggio di Fonsai da parte di Unipol con la ferrea sponsorizzazione di Mediobanca, che è esposta notevolmente come creditore sia della prima compagnia che della seconda. E’ una operazione che Generali non ha sostenuto e che nei sospetti di Mediobanca avrebbe invece osteggiato avallando o non impedendo la proposta alternativa avanzata dalla Sator di Matteo Arpe (ex Mediobanca) e dalla Palladio di Roberto Meneguzzo, quest’ultimo assai vicino a Perissinotto. Giusti o sbagliati che siano questi sospetti, quello che è certo è che l’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel ha impegnato molta della sua credibilità e di quella dell’istituto che guida sul successo della fusione tra Unipol e Fonsai, una determinazione che non consente sospetti o distinguo. Resta infine il punto chiave, la gestione di Generali, se Perissinotto sia o meno all’altezza di guidare la multinazionale assicurativa più importante del paese e tra le prime d’Europa. L’ultimo bilancio ha pagato pegno (come peraltro quello di Mediobanca) alla svalutazione di partecipazioni. Secondo molti Perissinotto non è un manager brillante, tuttavia è stata Mediobanca a farlo ammini-stratore delegato nel lontano 2001 e a tenerlo in quel posto per 11 anni, rafforzandone i poteri l’anno scorso dopo la breve presidenza Geronzi. Molti sostengono anche che i risultati avrebbero potuto essere migliori, e anche questo è vero, ma il modo per guadagnare di più è essenzialmente prendere più rischi nella gestione finanziaria, cosa che la tradizione Generali vede come il fumo negli occhi. Uno degli azionisti, quello straordinario imprenditore che è Leonardo Del Vecchio, creatore di Luxottica, in una dura intervista al Corriere della Sera apparsa il giorno dell’assemblea lo accusava proprio di fare troppa finanza e ne chiedeva già allora le dimissioni. Altri al contrario sostengono che la compagnia di finanza ne faccia troppo poca e se ne facesse di più altri sarebbero gli utili, i dividendi e il valore dell’azione in Borsa. La misura giusta non è evidentemente la stessa per tutti. La sostanza tuttavia è che il ciclo di Perissinotto volgeva al termine, 12 anni da amministratore delegato (tanti sarebbero alla scadenza naturale del mandato in corso) sono tanti, troppi. Pochi riescono a reggere per un tempo così lungo e pochissimi a dare all’azienda che guidano ancora qualcosa. Quindi un cambio era logico e probabilmente auspicabile. Meno lineare è l’improvvisa accelerazione. Alla fine tuttavia quello che da questa storia emerge è il solito annoso problema: il rapporto tra Mediobanca e Generali. E’ un problema antico. Mediobanca considera Generali una sua provincia e spesso la utilizza come tale, l’indipendenza del management che è un valore assoluto dentro il palazzo di Piazzetta Cuccia non vale per le partecipate. Questo approccio però non ha fatto bene alle Generali e neanche al paese. Mediobanca per non diluire la sua quota e il suo controllo ha limitato la capacità di espansione della compagnia impedendone gli aumenti di capitale, e tenendo le briglie strette ne ha limitato la crescita strategica e operativa. Perissinotto non è stato un gran ribelle ma forse in qualche tratto la sua disponibilità ha mostrato un limite. La sua lettera ai consiglieri di giovedì scorso racconta la sua versione di un rapporto difficile e la sua interpretazione di quale questo limite – la vicenda Fonsai – sia stato. E’ quindi l’inizio di un altro ciclo, dieci mesi prima del previsto, ma che era già nelle cose. Le Generali saranno affidate a Mario Greco, manager assicurativo con una solida esperienza,
che negli ultimi anni ha guidato con successo la svizzera Zurich. E’ il primo da molti anni che non viene dall’interno della compagnia, il che consente di prevedere un notevole tasso di innovazione in un gruppo che all’innovazione non è molto abituato. Il mercato, che già ha festeggiato nei giorni scorsi, si aspetta molto da lui. Dovrà rivedere il portafoglio finanziario e immobiliare e valorizzarli, ridefinire gli obiettivi strategici, dall’espansione a est verso la Russia, dove è aperta la partita con la banca Vtb, a quella verso il Sud America e l’Asia. La rottura che apre questo nuovo ciclo, per i modi in cui è avvenuta e anche per la sostanza, lascerà le sue tracce non solo a Trieste. Sono tempi nuovi, dicevamo, nei quali la fragilità non risparmia nessuno. A Trieste, periferia sia pure importantissima della Galassia, ma anche al centro. Se Nagel e Pagliaro hanno fissato una nuova linea secondo la quale se le azioni vanno giù il mangement va a casa, ebbene hanno anche aperto una breccia. Le azioni Mediobanca che un anno fa valevano 7 euro e 78 centesimi, venerdì hanno chiuso a 2 euro e 78 centesimi. La regola potrebbe valere anche per loro. Nel grafico qui a sinistra, il raggruppamento di azionisti che guida le Generali e nella foto più in basso, la sede della compagnia assicurativa a Trieste Nella foto qui sopra, l’ad di Mediobanca Alberto Nagel (a sinistra) e l’ad delle Assicurazioni Generali Giovanni Perissinotto che ha guidato il gruppo triestino dal 2001