di Andrea Bassi
Non lo ha mai nominato direttamente. Ma che la risposta fosse indirizzata al commissario Michele Pezzinga, che lo aveva accusato di un intervento «irrituale» e anche poco legittimo, è stato subito chiaro. Giuseppe Vegas, presidente della Consob, per rispedire al mittente le accuse di aver interferito nell’operazione Unipol-FonSai, ha scelto una sede istituzionale come il Senato della Repubblica, dove ieri è stato ascoltato in audizione nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui rapporti tra banche e imprese in Italia. L’occasione doveva servire, ed è servita, a parlare soprattutto dell’Eba e delle sue richieste di patrimonializzazione del sistema bancario. Ma a offrire l’occasione a Vegas di togliersi il classico sassolino dalla scarpa, è stato il senatore dell’Idv Elio Lannutti che, nel suo consueto stile diretto, ha chiesto come fossero andate le cose in Consob nel caso Unipol-FonSai. «Chiaramente », ha spiegato Vegas, «il compito dell’Autorità è di controllare il mercato. Ma questo», ha aggiunto, «non necessariamente deve avvenire quando i buoi sono scappati». Non solo. «L’Autorità», ha detto ancora il presidente della Consob, «incontra chiunque chieda di essere sentito per illustrare i suoi programmi». Se quei programmi cambiano, e nel caso in questione possono ancora cambiare finché non c’è il deposito definitivo, ha spiegato Vegas, «poi è comunque la Commissione nel suo insieme a decidere che cosa fare». La vera stoccata, però, è arrivata alla fine, quando il presidente della Consob ha voluto ricordare che, in fin dei conti, «la seconda proposta sembra escludere dal novero di coloro che si avvantaggiano della procedura, ovvero la famiglia originariamente proprietaria», alias i Ligresti. «Capisco», ha chiosato, «che possano esserci rimpianti, ma personalmente non me ne dolgo». E del resto, il primo piano per l’operazione Premafin-FonSai-Unipol con il premio multimilionario ai Ligresti era stato fortemente criticato da alcuni tra i più qualificati osservatori del mercato. Se la vicenda Pezzinga è stata liquidata da Vegas con poche battute, sulla questione dell’Eba e del rafforzamento patrimoniale delle banche il ragionamento del presidente della Consob è stato decisamente articolato. Innanzitutto, ha spiegato, tutte le decisioni prese dall’European banking authority sembrano favorire le banche francesi e quelle tedesche e sfavorire quelle italiane. A ciò porta, di certo, il principio della valutazione mark-tomarket di tutti i titoli sovrani dei Paesi dell’area euro e non solo a quelli dei Piigs. Questo ha comportato forti plusvalenze per gli istituti francesi e tedeschi sui titoli dei rispettivi Paesi che, di fatto, hanno fortemente limitato le necessità di ricapitalizzazione. Come anche è da criticare la decisione di non estendere lo stesso approccio rigoroso usato per i titoli di Stato alle altre attività illiquide presenti nei portafogli delle banche. Su questa categoria di titoli l’esposizione italiana è pari a solo il 6,8% del patrimonio di vigilanza contro il 65,3% dei principali gruppi bancari europei. L’elenco delle regole creative dell’Eba non finisce qui. L’Authority, per esempio, ha deciso di assoggettare a un trattamento più rigoroso il rischio di credito rispetto al rischio di mercato. Una penalizzazione in più per le banche concentrate nei settori tradizionali del credito a famiglie e imprese (quelle italiane) e un vantaggio indiretto a quelle che operano più sul trading e sull’investment banking. E tutto questo volendo sorvolare su come le diverse autorità di vigilanza dei diversi Paesi calcolano il Core Tier 1, che l’Eba ha stabilito al 9% mentre la già rigida Basilea 3 lo limitava al 7%. Che cosa comporterà tutto questo? Le banche hanno sostanzialmente poche scelte: ricapitalizzare oppure vendere asset non core oppure erogare meno credito. Nel caso delle ricapitalizzazioni ci sono enormi problemi da tenere presenti, che ne sconsigliano la scelta. Il primo è quello del «sovraffollamento» delle richieste di soldi al mercato. Le ricapitalizzazioni, secondo l’Eba, dovrebbero avvenire entro giugno. Nello stesso arco di tempo andranno a scadenza 186 miliardi di titoli pubblici e 79 miliardi di obbligazioni bancarie. Il rischio è che si produca un effetto «spiazzamento», nel senso che la domanda di capitale di rischio potrebbe andare a detrimento degli acquisti di Btp e di bond bancari. Inoltre, visto che gli aumenti, come dimostrato dal caso Unicredit, avvengono a forte sconto, si verificano un effetto diluitivo degli attuali soci e l’emersione di nuovi azionisti (fondi sovrani e fondi di private) i cui piani industriali non sono noti al momento dell’ingresso nel capitale della banca. In altri termini, il rischio è che gli istituti italiani vengano svenduti (la capitalizzazione è bassissima) senza trasparenza e senza nemmeno le garanzie per i piccoli azionisti che si avrebbero con altre operazioni di mercato. Anche l’alternativa di vendere attivi, come il credito al consumo, il factoring o gli immobili, è rischiosa. Essendo operazioni che sarebbero concluse in stato di bisogno, la svendita sarebbe pressoché certa. All’Eba andrebbe chiesto, ha spiegato Vegas, che le operazioni di aumento di capitale e di asset management possano essere effettuate in un arco temporale più ampio. Anche perché, come detto, la prospettiva di ulteriori aumenti di capitale fortemente diluitivi rischierebbe non solo di rendere più difficoltosa la raccolta di nuovo capitale da parte delle banche, ma di determinare quel clima di sfiducia tra gli investitori che potrebbe compromettere l’attrattività del nostro mercato azionario. E se l’Eba rifiutasse di concedere più tempo? Allora, ha spiegato Vegas, la decisione potrebbe essere presa direttamente dal Consiglio europeo, la cui prossima riunione è fissata per marzo. (riproduzione riservata)