di Andrea Bassi

 

A leggerla così come è stata scritta la norma, in effetti, suona strana. In pratica ogni agente assicurativo che lavora per una certa compagnia diventa fuorilegge se non si mette a distribuire anche le polizze col marchio di un concorrente. L’Ania, l’associazione che rappresenta le assicurazioni, il codicillo inserito in una delle ultime bozze del decreto sulle liberalizzazioni, nemmeno l’ha voluto commentare.

Semplicemente non crede che una cosa del genere sia possibile. Nemmeno gli analisti, che sulle varie indiscrezioni sui contenuti della «lenzuolata» Monti si sono gettati a far calcoli e stime, hanno voluto prendere in considerazione la norma. «È assurda», spiega un analista dietro garanzia di anonimato, «come si fa ad obbligare una compagnia ad aprire la propria rete ad un concorrente?». Insomma, l’articolo smantella-reti dovrebbe essere destinato a scomparire dal testo definitivo del decreto che dovrebbe essere adottato dal consiglio dei ministri del 19 gennaio. Ma il condizionale è d’obbligo. Sulle liberalizzazioni nel governo ormai è il caos. E le assicurazioni, probabilmente, sono pure il problema minore. Prendiamo la norma sull’articolo 18. Dopo le improvvide uscite del mese scorso sull’ammorbidimento delle garanzie sul licenziamento dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, il ministro del Welfare Elsa Fornero, stava provando a fatica a ricucire i rapporti con i sindacati.

Nella bozza del decreto, però, è spuntata a sorpresa una norma che, in caso di fusione tra due aziende, porta da 15 a 50 il limite sotto il quale le tutele dell’articolo 18 non valgono. Ovviamente i sindacati sono andati su tutte le furie e hanno subito minacciato fuoco e fiamme con il ministro del Welfare. Che però si è detto, se è possibile, addirittura più sorpreso di loro. Fornero di quella norma ha ammesso di non saperne niente. Eppure nelle bozze circolate tra gli uffici legislativi dei ministeri articolo e comma sono in bella vista. Uno tiro mancino al ministro da parte di qualche collega di governo? Forse. Comunque, per provare a gettare acqua sul fuoco, Palazzo Chigi ha dovuto mandare un comunicato per smentire che le bozze del provvedimento pubblicate dai giornali fossero quelle di lavoro del governo. Nessuno, ovviamente, ci ha creduto. Ma la mossa è stata necessaria anche per raffreddare gli animi nei partiti che sostengono la maggioranza, che sulle liberalizzazioni (per opposti motivi) stanno sparando ad alzo zero. Soprattutto perché l’incontro con Monti dei vari Angelino Alfano, Pierluigi Bersani, Pierferdinando Casini, per discutere dei contenuti del provvedimento, era stato fissato solo per venerdì 13 gennaio, quando ormai i contenuti della lenzuolata erano già tutti trapelati.

La vera domanda è quante e quali norme sopravviveranno.

I fronti più caldi sono quelli di taxi, avvocati e farmacie. I conducenti delle auto bianche sono difesi a spada tratta sia da Silvio Berlusconi che da Umberto Bossi. Insomma, attorno ai tassisti si è ricompattata la vecchia maggioranza di governo. La categoria, comunque, la voce grossa la riesce a fare benissimo da sé. Da giovedì 12 cortei spontanei di tassisti si sono formati a Roma e Napoli. Le città sono state bloccate e le proteste sono arrivate fin dentro il portone di Palazzo Chigi. Sembra il film già visto nel 2007, quando le auto bianche iniziarono a girare suonando il clacson attorno a via Veneto, dove ha sede il ministero dello Sviluppo, bloccando al suo interno l’ex ministro Pierluigi Bersani che voleva inserire la deregulation nella sua lenzuolata. Allora l’ebbero vinta i tassisti.

Anche la categoria degli avvocati, che stando alla bozza dovrebbe rinunciare alle tariffe stabilite dall’ordine e sarebbe obbligata a consegnare un preventivo ai clienti, qualche freccia al suo arco per convincere Monti a fare marcia indietro ce l’ha. La più appuntita è rappresentata dalla nutrita schiera di parlamentari-avvocati che già a dicembre avevano costretto l’ex rettore della Bocconi a cancellare la riforma inserita nel decreto salva-Italia minacciando in blocco di non votare il provvedimento. Fatti due conti, il premier aveva scoperto che senza quei voti la maggioranza sarebbe stata a rischio.

Ci sono poi le farmacie. E qui il discorso si fa più complesso. La liberalizzazione prevede in pratica due cose. La prima è che ci saranno più farmacie che saranno aperte soprattutto nei centri commerciali e anche in stazioni e autogrill. La seconda è che le parafarmacie potranno vendere liberamente i farmaci di fascia C. Per gli attuali esercenti, probabilmente, il problema maggiore è questo. Questo tipo di farmaci, insieme ai prodotti da banco, sono gli unici a generare cassa per le farmacie. Gli altri medicinali, venduti in convenzione con il Servizio sanitario, vengono in pratica pagati dallo Stato. Che come noto non è tanto puntuale nel saldare i propri conti. Insomma, farmaci di fascia C e prodotti da banco vengono usati di fatto per finanziare l’anticipo fatto per conto dello Stato alle case farmaceutiche per l’acquisto degli altri farmaci. Dunque anche su questo sarebbe in corso una riflessione.

 

Il rischio, insomma, è che la lenzuolata diventi un lenzuolino. Con pochi effetti per i consumatori. Come del resto è stato anche per i provvedimenti dei precedenti governi. Stando ai dati pubblicati dalla Cgia di Mestre, tolto il settore dell’energia, le liberalizzazioni «all’italiana», invece che un beneficio sarebbero state un costo. L’apertura dei mercati delle assicurazioni sui mezzi di trasporto, dei carburanti, del gas, dei trasporti ferroviari ed urbani e dei servizi finanziari, ha denunciato l’organizzazione guidata da Giuseppe Bortolussi, sono costate alle famiglie quasi 110 miliardi di euro. Dall’avvio delle liberalizzazioni fino a novembre dello scorso anno, secondo i dati della Cgia di Mestre (si veda anche tabella a pagina 16), hanno fatto aumentare la spesa di 4.576 euro per famiglia all’anno. Un bel salasso.

Altri, come la Banca d’Italia, la pensano diversamente. Palazzo Koch, qualche tempo fa, aveva provato a stimare in uno studio i possibili effetti positivi della rimozione degli ostacoli regolamentari soprattutto per i servizi non commerciabili internazionalmente (commercio, trasporti, comunicazioni, credito, elettricità, gas). E il risultato dell’analisi è stato che rimuovendo le barriere il prodotto interno potrebbe crescere di quasi 11 punti percentuali, il consumo privato e l’occupazione dell’8% e gli investimenti del 18%. A beneficiarne sarebbero anche i salari reali con un incremento di quasi il 12%. Dunque dovrebbero essere questi i primi settori ad essere aperti.

 

Nella lenzuolata Monti trasporti, assicurazioni e commercio ci sono. Banche, elettricità e gas, per ora, sono invece assenti. Sui trasporti, per esempio, è stata inserita una norma che riguarda le concessioni autostradali e che dovrebbe legare gli aumenti tariffari al meccanismo del price cap invece che all’inflazione programmata. In realtà è esattamente il sistema utilizzato sin dalla privatizzazione di Autostrade, dove il cap era di fatto legato all’aumento del traffico sulla rete. Semplificando all’estremo l’equazione, insomma, era più traffico più tariffe. Non è che avesse portato grandi riduzioni di prezzo. Anzi. Per le Ferrovie, invece, dovrebbe arrivare lo scorporo di Rfi dalle Fs. Una misura che, secondo qualcuno, potrebbe essere anche propedeutica ad una vendita di Trenitalia. Sulle utility poi, la strada è quella che aveva provato già a battere il governo Berlusconi. Obbligare i Comuni a ridurre sotto il 40% la loro partecipazione entro il 2013 per poter mantenere le concessioni in house. Una norma che potrebbe, per esempio, accelerare la discesa del Comune di Roma in Acea.

Chi è molto preoccupato, invece, sono le società di distribuzione dei carburanti. La lenzuolata di Monti vorrebbe imporre la vendita di un terzo delle catene a marchio a chi le gestisce o a nuovi operatori. Anche in questo caso si tratta di una misura di difficile attuazione, anche perché comporterebbe una sorta di «esproprio» della rete che potrebbe dar luogo a contenziosi infiniti. «Non siamo d’accordo su alcune aggiunte, come quella di dire che bisogna vendere fino al 30% degli impianti a un prezzo fissato dall’Autorità», ha commentato per esempio il presidente dell’Unione petrolifera, Pasquale De Vita. «Questo», ha aggiunto, «non avviene da nessuna parte del mondo, non capisco perché ce la dobbiamo inventare; anche dal punto di vista giuridico credo che non avrebbe senso». Se però la cosa dovesse comunque andare in porto, ad essere penalizzato maggiormente potrebbe essere Erg, che genera il 25% dei suoi risultati dal marketing petrolifero. Un effetto minore, invece, la norma avrebbe sull’Eni, mentre per Saras, che in Italia invece non ha marketing, l’impatto potrebbe addirittura essere positivo.

La battaglia delle lobby, comunque, è appena iniziata. Il vero terreno di scontro saranno le aule parlamentari una volta che il decreto sarà varato dal governo. Solo allora si potrà capire quanti strappi dovrà subire la lenzuolata di Monti. (riproduzione riservata)