La mappa dell’istituto guidato da Federico Ghizzoni è stata diffusa ieri dal Tesoro. Ai fondi sovrani esteri fa capo una quota del 15 per cento
La Cina è già partita all’attacco delle banche italiane, tanto che lo 0,463% del capitale di Unicredit è già in mano a sette società del Dragone. La comunicazione è arrivata ieri dal sottosegretario all’Economia, Bruno Cesario, come risposta a un’interrogazione in commissione Finanze della Camera dei leghisti Maurizio Fugatti e Silvana Comaroli. In realtà, tra gli azionisti non compare ancora il China Investment Corp (Cic). Ma nulla esclude che in futuro la mossa non venga imitata anche dal fondo sovrano di Pechino, soprattutto in vista di un possibile accordo con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in vista di possibili partnership sul fronte industriale e bancario. Dalla tabella consegnata da Cesario si è appreso che la quota in Unicredit fa capo a sette società cinesi, alcune delle quali configurabili come fondi sovrani altre come fondi previdenziali. Si tratta di Best Investment Corporation Boci Prudential Trustee Limited, Flourish Investment Corporation, Grant Schools Provident Fund, Hong Kong Special Administrative Region Government, National Council for social Security Fund, People’s Bank of China e The Subsidized Schools Provident Fund Care of the Treasury. E tra questi il nome più caldo è proprio quello della banca centrale di Pechino: la People’s Bank of China. La Cina ha mosso quindi il primo passo in Italia. Bisogna ora capire se la stessa cosa sia avvenuta anche nell’azionariato degli altri principali istituti di credito italiani o se Unicredit ha fatto da apripista. In ogni caso, i nuovi soci di Pechino vanno ad affiancare altri azionisti esteri presenti nel capitale di Unicredit da ormai diversi anni, alcune dei quali possiedono quote superiori al 2 per cento. La Central Bank of Libya e Libyan Foreing Bank detengono il 4,61% del capitale (4,998% a libro soci), la Libyan Investment Authority possiede il 2,594%, International Petroleum Investment company il 4,991%, mentre alla Norges Bank fa capo il 2,074 per cento. Considerando però anche le quote inferiori al 2%, dalla documentazione del governo risulta che in totale i fondi sovrani hanno in mano circa il 15% del capitale di Piazza Cordusio. Si è appreso, infatti, che ci sono anche 12 società arabe nell’azionariato dell’istituto guidato da Federico Ghizzoni. In particolare due sono di Abu Dhabi (con lo 0,443%), due saudite (0,182%), sei kwaitiane (0,361%) e due dell’Oman (0,007%). Da 30 anni Unicredit è presente in Cina e nei prossimi anni punta a raddoppiare la sua presenza. «Il mercato cinese per noi è cruciale», ha confermato qualche giorno fa il dg Roberto Nicastro da Cernobbio, annunciando l’inaugurazione degli uffici di Guangzhou e l’intenzione di aprirne altri a Pechino, sulla costa e nelle città occidentali di Chongqing e Chengdu.
Il mercato, intanto, ora attende con suspance il piano industriale che verrà presentato a novembre. Il business plan, che dovrebbe essere a tre anni, con orizzonte a cinque, e puntare sulla riduzione dei costi e sul riposizionamento dell’istituto come banca commerciale, ha come obiettivo centrale il rafforzamento patrimoniale del gruppo. Rafforzamento che potrebbe avvenire attraverso un aumento di capitale, una riduzione delle attività ponderate per il rischio o la vendita di alcuni asset. E mentre nelle sale operative si cerca di quantificare l’entità della ricapitalizzazione, tra i piccoli soci cresce il malcontento. Per le Fondazioni, infatti, una nuova ricapitalizzazione rappresenta un ulteriore sacrificio. In Borsa, intanto, ieri è stata una giornata da incorniciare, con il titolo che ha recuperato il 6,9% a 0,775 euro.