L’accelerazione della manovra finanziaria 2011-2014, impostaci dalla crisi e dalle richieste dei nostri partner europei, porta con sé, inevitabilmente, un’accelerazione della discussione sulla riforma fiscale, non solo sui principi guida della legge delega ma anche sulle misure da assumere per arrivare al pareggio di bilancio già dal 2013.
Sul fatto che il nostro sistema fiscale sia afflitto da serie distorsioni che compromettono la crescita e generano un serio problema di equità, si registra un consenso assai diffuso; condivisa è pure la formula per superare distorsioni e problemi, ovvero lo spostamento del prelievo dalle persone alle cose, cui aggiungere un rafforzamento della lotta all’evasione. Tuttavia, la manovra avviata con l’emanazione del dl 138 e riconfiguratasi convulsamente in diverse versioni successive non corregge gli squilibri sul fronte dell’equità né prevede misure in direzione dello sviluppo.
Sul versante dell’equità, la diseguaglianza della distribuzione della ricchezza è alimentata e rappresentata, nel nostro paese, soprattutto dal carico eccessivo sull’Irpef, che negli anni dal 2006 al 2010 è passata dal 36,7 al 44,7% del totale delle entrate dello stato. Inoltre, all’interno dell’Irpef va considerato il peso crescente sui redditi da lavoro dipendente, pari nel 2010 al 76,5% dell’intero gettito di questa imposta, mentre nel decennio precedente si è registrato un aumento dell’imposizione sul lavoro dipendente di circa il 5,5% annuo, a fronte di una diminuzione delle entrate totali pari al 9,2%, dal 2000 al 2009 (rapporto della Fondazione Rei – Ceradi Luiss Guido Carli dicembre 2010 per Federmanager-Cida). Le ragioni di questo squilibrio si danno qui per note, dall’automaticità della trattenuta alla fonte all’aumento di forme di tassazione cedolari o separate. Naturalmente, per la progressività dell’imposta, nell’ambito del lavoro dipendente pagano di più le categorie con retribuzioni più elevate, ovvero quelle ad alta professionalità: dirigenti e quadri pubblici e privati, docenti universitari, magistrati, alti ufficiali delle forze armate e di polizia sono le categorie che sopportano il maggior taglio percentuale dei propri redditi nell’Italia di oggi. Questo squilibrio è stato aggravato dal dl 78, convertito dalla legge 122 del 2010, che ha tagliato del 5% le retribuzioni pubbliche superiori ai 90 mila e del 10% quelle superiori ai 150 mila. Lo stesso taglio è stato applicato dal dl 98 convertito dalla legge 111 di quest’anno alle pensioni dello stesso importo, per essere successivamente generalizzato a tutti i redditi soggetti a Irpef dal dl 138 (misura poi stralciata dal maxiemendamento su cui il governo ha incassato la fiducia in parlamento e sostituito da un prelievo aggiuntivo del 3% sui redditi superiori a 300 mila euro).
L’altra seria carenza, come s’è detto, è quella relativa alle misure per lo sviluppo, pure richieste dalle parti sociali, da Bankitalia e dalla Ue. La risposta del governo è stata che, nell’attuale situazione, non vi sono risorse da destinare a questo scopo. In effetti, una politica di bilancio che intendesse contribuire seriamente alla crescita del paese richiederebbe l’impegno di risorse importanti, perché bisognerebbe intervenire su diversi settori: dal rilancio delle infrastrutture alla ricerca applicata, dalla green economy fino agli investimenti sulla conoscenza (scuola e università), a lungo termine decisivi per recuperare qualità alla vita sociale ed efficienza al sistema produttivo. Ma le risorse non ci sono.
Né può bastare, a far quadrare i conti, la sola lotta all’evasione. Una stima ragionata dell’Ires Cgil ne colloca oggi il valore intorno ai 245 miliardi di euro, corrispondenti più o meno a 18 punti del pil reale. Altre stime danno valori ancor più elevati. In particolare, l’ evasione dell’Iva è stata valutata dal Centro studi Confindustria, nel 2009, in 35,5 miliardi di euro, pari al 28,8% della base imponibile. Quanto può rendere, in tempi brevi, una politica più incisiva su questo fronte? Per l’Iva, è stato calcolato che, se si tornasse oggi ai livelli di evasione scesi nel 2007 al 21,7% della base imponibile, si realizzerebbero nove miliardi. L’Iva rappresenta circa il 62% delle imposte indirette, ma la parte restante (bollo, benzina ecc.) è molto meno evasa. Comunque, un recupero di evasione negli ultimi due anni complessivamente c’è stato. Perciò, un ulteriore recupero, come quello ipotizzabile a seguito delle misure in via di definizione all’interno della manovra, potrà contribuire al pareggio di bilancio, ma certo non al finanziamento di una seria politica di sviluppo.
Quanto alla tassazione delle rendite e delle transazioni finanziarie, certamente da riordinare e rafforzare, in questa sede ci si limiterà a ricordare che non è possibile attendersi risultati assai consistenti, considerando una serie di difficoltà che vanno dalla necessità di salvaguardare comunque i titoli di Stato all’esigenza di un forte coordinamento internazionale per controllare gli spostamenti di capitale, coordinamento oggi poco plausibile (e questo è il problema più grande, su scala mondiale).
La conclusione di questo sommario esame è che, nell’attuale situazione finanziaria del paese, è inevitabile arrivare a una imposizione sul patrimonio. Il punto chiave è che uno spostamento dell’imposizione dai redditi provenienti da attività produttive alla ricchezza inerte non solo potrebbe portare più risorse ma di per sé creerebbe sviluppo, perché incoraggerebbe lo spostamento dei patrimoni verso impieghi più produttivi e perché incentiverebbe lo svolgimento delle attività professionali, dipendenti, autonome o d’impresa.
Dei grandi patrimoni immobiliari da rimettere in circolo una componente importante è quella rappresentata dalla parte utilizzabile del demanio pubblico. Degli altri patrimoni, andrebbero individuati ed esentati quelli collegati direttamente ad attività d’impresa.
Ma in questa sede interessa approfondire un altro aspetto, relativo ai patrimoni provenienti da risparmi realizzati su redditi da lavoro dipendente o da attività professionali. Difatti, per evitare la conferma degli squilibri in atto e un forte impatto recessivo sull’economia, è inevitabile che questa imposizione colpisca selettivamente i grandi patrimoni. Il problema è come fissare la soglia oltre la quale un patrimonio va considerato grande.
La Cgil, al riguardo, avanza una proposta ricalcata sull’esempio francese dell’imposta di solidarietà sulla fortuna, semplificandola. Premettendo che il patrimonio da considerarsi sarebbe quello netto, ovvero quel che resta dedotti mutui, debiti anche d’imposta e spese di famiglia, in tale proposta l’imposta scatterebbe al di sopra del limite degli 800 mila euro, con un’aliquota fissa dell’1% annuo.
La proposta che personalmente avanzo è di non tenere fisso il limite dell’esenzione, ma di collegarlo all’Irpef pagata negli anni precedenti. Ovvero, di calcolarlo come un multiplo di questa. Per esempio, se si decidesse che il multiplo è venti, un contribuente che avesse pagato un’Irpef media negli anni precedenti di 50 mila avrebbe una franchigia fino a 1.000.000 . Per evitare di danneggiare i redditi più bassi, andrebbe comunque tenuta esente la proprietà della casa di abitazione.
Il gettito di una simile imposta dipenderebbe, com’è ovvio, dall’aliquota. Come punto di riferimento potrebbe prendersi il 5% delle famiglie più ricche, proprietarie di un patrimonio medio a famiglia di 2.278.781, per una ricchezza complessiva di 2.752.849.500.000 (Dati del Dipartimento economico della Cgil, marzo 2011). Ovviamente, una parte di questa ricchezza andrebbe esentata secondo la proposta di cui sopra, ma questa esenzione sarebbe più che compensata dalla tassazione dei patrimoni inerti della fascia inferiore. Di qui la relativa affidabilità del riferimento proposto come ricchezza complessiva tassabile, che, se colpita da un’aliquota dell’1%, darebbe un gettito di 27,5 miliardi di .
La ratio di questa proposta è molteplice. Oltre a incoraggiare lo spostamento di risorse verso impieghi produttivi, si eviterebbe una doppia tassazione di risparmi realizzati su un reddito già colpito dall’Irpef. Inoltre, si penalizzerebbe, scoraggiandola, l’evasione Irpef. Infine, si avvantaggerebbero comparativamente i percettori dei redditi più elevati da lavoro dipendente o autonomo, correggendo uno degli squilibri più rilevanti dell’attuale sistema fiscale. Se a tale recupero si aggiungesse la detassazione delle quote di reddito collegate a risultati di produttività anche al di là dei limiti vigenti, che tengono fuori sia tutto il pubblico impiego che la dirigenza dei settori privati, ne deriverebbe un consistente incentivo nei confronti delle attività di produzione di beni e servizi svolte da queste categorie, e dunque una seria spinta allo sviluppo dell’economia nazionale.
* vicepresidente Federazione Funzione pubblica-Cida