Non c’è pace per le pensioni. E non soltanto nel presente, anche se un primato in termini di numero delle misure correttive, va senz’altro riconosciuto all’attuale Governo. Senza andare troppo indietro nel tempo, gli ultimi 30 anni consegnano una storia fatta di continue azioni di riforma del sistema previdenziale.
Nel 1992 (riforma Amato) è stato introdotto il graduale aumento dell’età di pensione di vecchiaia, da 55 a 60 anni alle donne e da 60 a 65 agli uomini. Nel 1996 (riforma Dini) è stato (re)introdotto il sistema di calcolo contributivo delle pensioni; nel 2004 (riforma Maroni), l’età per la pensione di anzianità è stata fatta salire in misura graduale da 52 a 62 anni. Poi è stata la volta delle «quote» sempre per la pensione di anzianità (riforma Damiano), nel 2007, con il Protocollo Welfare. Infine, nei nostri giorni, le tre diverse riforme targate Sacconi. La prima, più incisiva e strutturale, è arrivata con la manovra estiva dell’anno scorso (legge n. 122/2010) con un risparmio di soldi pubblici pari a 80 miliardi di euro (quasi 4 punti del pil) nei prossimi 40 anni. Poi è stata la volta della prima manovra 2011 (legge n. 111); infine, la manovra-bis (dl n. 138/2011) tuttavia con novità di scarso effetto immediato (salvo per la scuola). Il «peggio» sembra debba ancora avvenire, a leggere le interviste degli esponenti di maggioranza e opposizione (articolo di pagina precedente), entrambi d’accordo sul fatto che il sistema previdenza abbia bisogno di ulteriori accorgimenti. Insomma, bisogna abituarsi: si può sapere con certezza quando (e se) si comincia a lavorare, ma non quando (età) si potrà smettere.
Unico tabù che ancora resiste è il traguardo dei 40 anni di contributi, scampato all’automatico incremento della «speranza di vita», ma subito «corretto» con alcuni mesi in più alla finestra mobile.