Ci vuole una diabolica tendenza al masochismo per progettare l’aumento dell’imposta di bollo sui depositi in titoli nel momento in cui si elogia il risparmio, anzitutto quello dei piccoli investitori, e mentre in Europa si producono nuove turbolenze sui debiti sovrani, anche per effetto dell’assai discussa azione delle agenzie di rating in un contesto anche nazionale che ieri ha pesato sulla Borsa italiana.
A molti è venuto spontaneo il ricordo dell’imposta del 6 per mille sui depositi varata improvvisamente dal governo Amato nel 1992 che, pur motivata dal baratro che si stava aprendo per la finanza pubblica e per l’economia, è rimasta impressa nella mente dei risparmiatori come un episodio che non avrebbe dovuto ripetersi. Tanto che molti esponenti della maggioranza oggi al governo hanno esercitato su quell’imposta una damnatio memoriae. Il riferimento al 1992 è certo forzato, per il contesto e per gli specifici caratteri dei due provvedimenti. E tuttavia è ravvisabile nelle due decisioni, separate da quasi 20 anni, una ratio abbastanza simile, che risponde al criterio di intervenire su quella materia imponibile sulla quale si ritiene di poter incidere più facilmente e rapidamente e che, di primo acchito, agli interessati che saranno incisi può apparire una non significativa penalizzazione.
L’imposta in questione, per come è configurata, appare in collisione con il secondo comma dell’art.53 della Costituzione sulla progressività della tassazione. Ma, al di là di questo non secondario rilievo, c’è da chiedersi che senso abbia mai un’imposizione regressiva che colpisce soprattutto i piccoli investitori in titoli pubblici – materia sulla quale nessuno in Europa oggi interverrebbe, considerata la situazione del debito degli Stati – e coloro che alimentano il risparmio popolare, sostenuto dalla Costituzione. Hanno pensato gli specialisti del Tesoro che, così agendo, di fatto si solleciterà il trasferimento delle disponibilità da questi conti ad altre forme di risparmio, per esempio ai certificati di deposito, quando se ne abbasserà l’aliquota al 20%? Si è consapevoli che i piccoli risparmiatori, come i titolari di un numero modesto di azioni di banche, mettiamo per 20-30 mila euro, data l’immaterialità dei titoli, subiranno un onere rilevante tra imposta di bollo e diritti di custodia? Non si può pensare che una forma di investimento resa più pesante da un aggravio di imposta, e quindi con rendimento negativo, possa essere confermata.
Insomma, titoli pubblici e risparmio cosiddetto popolare sono penalizzati e dunque i risparmiatori sono sollecitati a ricercare, magari con il concorso delle stesse banche, altri impieghi del limitato risparmio, spesso frutto del lavoro di una vita. A chi giova tutto ciò? Non si può pensare fondatamente di conseguire, stando così le cose, i risultati di gettito previsti in 8-10 miliardi. Ieri il ministro Tremonti in conferenza-stampa non è apparso difendere, come ci si sarebbe potuto attendere, il merito della scelta della nuova imposta, ma ha dichiarato che, a saldi invariati, è aperto a proposte alternative. Naturalmente l’espressione «a saldi invariati» non è poca cosa, anche perché si tratterebbe di prospettare una previsione di gettito credibile, rispetto a quella accennata, ben difficilmente conseguibile. Ma è limitativo applicare il criterio dell’invarianza dei saldi operazione per operazione, come se fosse possibile solo il metodo del «fuori un’imposta dentro un’altra». È la globalità della manovra semmai che deve obbedire a tale criterio. Ma se ciò è condiviso, allora è l’intera manovra che andrebbe riconsiderata. Intanto sarebbe un importante segnale per i risparmiatori – tale da annullare l’effetto annuncio dell’imposta di bollo – se il governo concretamente ne comunicasse il ripensamento. E si evitasse di tessere l’elogio del risparmio come grande ricchezza del Paese per poi agire legislativamente nel modo improvvido che si è visto. (riproduzione riservata)