Ora i non armonizzati esteri sono tassati al 12,50%. E aumenta la concorrenza speculativa. Il sistema deve concentrarsi
HEDGE FUND Con la nuova fiscalità il mercato degli hedge tricolore è sempre più a rischio. La riforma dei fondi comuni, diventata operativa venerdì 1 luglio, non ha cambiato solo il meccanismo di tassazione dei prodotti italiani (abbandonando il maturato e sposando il realizzato), ma ha anche introdotto importanti novità per i fondi di diritto estero non armonizzati, che non saranno più tassati ad aliquota marginale. In poche parole, gli eventuali capital gain non concorreranno più a formare reddito imponibile, ma saranno assoggettati a un’imposta sostitutiva del 12,50 per cento. Una mossa che mira a creare un mercato unico europeo dei fondi di investimenti e che al tempo stesso mette sullo stesso piano i prodotti di diritto italiano non armonizzati con quelli europei. Dunque, viene meno quel deterrente fiscale che fino a ieri poteva in qualche modo frenare l’acquisto di un prodotto non armonizzato estero, a tutto vantaggio degli strumenti tricolori. Una brutta tegola per gli hedge fund di casa che, in crisi di raccolta da marzo del 2008, dovranno ora imparare a fare i conti con la concorrenza d’Oltralpe. E più in particolare con prodotti che, soprattutto tra i fondi di fondi speculativi, presentano soglie minime di investimento ben più accessibili rispetto ai 500mila euro degli strumenti alternativi di diritto italiano. Negli ultimi anni, l’industria italiana degli hedge ha già dovuto fare i conti con un’altra forma di concorrenza. Quella dei veicoli armonizzati che hanno accolto le opportunità offerte dalla normativa UcitsIII, ovvero dei fondi comuni che replicano strategie alternative e che sono accessibili anche al pubblico retail, non avendo nessuna limitazione in termini di soglia minima di accesso. L’offerta di questa innovativa categoria di prodotti ha registrato una crescita esponenziale, in termini di numero e di masse, così come la richiesta da parte degli investitori. E non è un caso che molte Sgr (tradizionali e non), che hanno fiutato l’affare, abbiano deciso di entrare in questo nuovo business (oggi si contano circa 260 prodotti autorizzati alla distribuzione in Italia, per un patrimonio complessivo che è arrivato a quasi 45 miliardi). E l’effetto sugli hedge della concorrenza degli UcitsIII alternativi è ben visibile dai numeri. Dal 2008 a oggi il patrimonio gestito dall’industria speculativa tricolore si è più che dimezzato, con le masse che sono crollate dal picco storico dei 34 miliardi di euro agli attuali 11 miliardi. E molte società attive nella gestione di prodotti speculativi hanno visto il patrimonio scendere al di sotto della soglia critica di sopravvivenza. Insomma, il ridimensionamento di questi ultimi anni è stato drastico e ora ci si chiede cosa può succedere all’Italia degli hedge con l’intensificarsi della concorrenza straniera. Una cosa è certa. L’industria dovrà concentrarsi. Ubi Pramerica ha già ceduto il proprio ramo d’azienda dedicato alle gestioni alternative. E non sarà la sola.