Elena Dal Maso
Piovono opa a Piazza Affari, 25 da inizio anno di cui tre concentrate nei primi giorni di dicembre. Ad accelerare le operazioni, la debolezza dei listini mondiali (il Ftse Mib ha perso il 10% da inizio anno) a causa della guerra in Ucraina, del rialzo dei tassi e dell’iperinflazione. Resta il fatto che il rapporto prezzo/utile atteso al 2023 delle 40 società che compongono il Ftse Mib, per esempio, è di sole sette volte, valore che invoglia soprattutto i grandi fondi d’investimento ad approntare operazioni mordi e fuggi per impossessarsi a buon prezzo di aziende da delistare, rilanciare e infine rivendere a valori ben più consoni. Il risultato è che il 2022 si porterà via dal listino milanese almeno 33 miliardi di capitalizzazione relativa alle società oggetto d’offerta pubblica e conseguente delisting. Includendo i 15 miliardi di Exor -la holding ha traslocato di recente alla borsa di Amsterdam, dove ha la sede fiscale- la perdita di stazza sale a 48 miliardi. Si chiude per ora la vicenda Tod’s: qui a muoversi sono stati i Della Valle ma le scarse adesioni all’offerta hanno fatto per ora desistere la famiglia marchigiana dall’affondo. Se l’operazione più avanti andasse in porto, considerato che ai valori borsistici attuali Tod’s vale circa un miliardo, si arriverebbe a ridosso dei 50 miliardi di deflussi, ossia oltre l’8% rispetto ai 695 miliardi di capitalizzazione di Piazza Affari.
Big and small, chi se ne va. Quest’anno lasciano colossi come Atlantia: l’holding dei Benetton vale 19 miliardi di market cap e torna privata dopo 35 anni dopo l’opa di Edizione e Blackstone, così come Banca Finnat, delistata dalla famiglia Nattino, in borsa da 80 anni. L’ipo risale al 1939, si era quotata la holding di famiglia chiamata Terme di Acqui. Dalla fusione poi tra Terme Acqui e Banca Finnat nel 2003 anche la banca è entrata a Piazza Affari. Sul fronte opposto vi sono piccole società come Rosss, 12 milioni di euro di capitalizzazione, specializzata in scaffalature, così come Sourcesense, 36 milioni, realizza soluzioni tech open source, rilevata da Poste. Il 2022 vede anche l’uscita di Autogrill (2,5 miliardi), che fa sempre capo ai Benetton ed è promessa sposa al colosso Dufry, così come Falck Renewables, rilevata da Jp Morgan IM e Cerved, delistata dal gruppo Ion di Andrea Pignataro. Quest’ultimo, sede a Dublino, ha rilevato diverse società, fra cui Cedacri, Mergermarket e quote di eToro. Sarà interessante capire se Pignataro quoterà la holding all’interno dei listini Euronext, che controlla anche Borsa Spa.
Delisting con grande premio? Per rilevare le società, gli offerenti hanno pagato nel 2022 un premio medio rispetto al giorno precedente l’annuncio poco sotto il 30%, ma in oltre metà dei casi il prezzo di delisting è inferiore a quello di ipo. Si sono distinti il premio del 45% su Cerved, il 68% di Finlogic proposto da Credem Private Equity e il 135% di Luxottica su Fedon. Come spiega Fabrizio Testa, ceo di Borsa Italiana, «osserviamo ciclicamente fenomeni di delisting su tutte le borse, europee e non solo. La maggior parte degli asset finanziari, incluse le azioni, ha subito un forte re-pricing nel corso del 2022 dovuto prevalentemente a fattori macroeconomici e geopolitici, creando un contesto favorevole a offerte pubbliche finalizzate al delisting». È bene ricordare, aggiunge Testa, che ogni uscita dalla borsa «è una storia a sé. I delisting sono parte del normale ciclo di vita e sviluppo di un’azienda e sono fisiologici sul mercato. Se guardiamo al loro numero, quest’anno non sono di più di quelle avvenute negli anni passati». Ciò che è importante è che il mercato risponda ai bisogni delle società quotate e rimanga attrattivo per nuove ipo. «Ne abbiamo avute 22 a Milano quest’anno, 73 su Euronext», registra il manager. In seguito all’approvazione da parte di Borsa Italiana delle nuove regole di ammissione a quotazione, «oggi accedere al mercato regolamentato è più semplice. È una prima riforma importante che allinea l’Italia al resto d’Ue, rendendo più competitivi i nostri mercati». Era uno degli obiettivi evidenziati dal Libro Verde per la competitività dei mercati italiani del Mef «in linea con lo spirito della Capital Markets Union», conclude Testa.
Qualcosa non va? Giovanni Natali, presidente di AssoNext, l’associazione delle Pmi di Piazza Affari, sottolinea che «il mercato principale non esiste più. Almeno il governo ha riportato a 500mila euro il bonus quotazione per le pmi. Comunque dobbiamo ricordarci che il Italia fino al 97 esistevano 10 borse locali, oggi ce n’è una, tra meno di 10 anni in Europa (geografica) resteranno forse tre listini: Londra, Parigi e Francoforte e le imprese dovranno avere un respiro europeo anche per attingere al mercato dei capitali». Natali mette in evidenza che «in dieci anni il numero di società quotate in Italia è cresciuto solo per il mercato Egm. Senza di esso Borsa Italiana, sul mercato principale, ha ridotto il numero delle quotate di oltre il 30%». Le semplificazioni di Consob dei mesi scorsi, però, «sono un buon inizio». Continua «l’impoverimento della borsa italiana dopo il delisting di Dea Capital», osserva Fabio Caldato, partner di Olympia WM. «A ciò si aggiunge la sostanziale scomparsa delle grandi famiglie italiane dal listino, dagli Agnelli, a Del Vecchio, ai Benetton. E nel contempo i super campioni del food, Barilla e Ferrero, non hanno intenzione di quotare le loro aziende».
Che fare ora. Come sostenere la crescita delle Pmi con un mercato dei capitali all’altezza? «La questione è centrale per la competitività del Paese», sostiene Franco Gaudenti, presidente e ad di EnVent Capital Markets. Come è già fatto per favorire lo sviluppo di venture capital e strumenti di debito con fondi dedicati, «serve che la stessa determinazione venga applicata alla promozione di fondi di fondi che investano in strumenti e fondi chiusi dedicati al public equity, favorendo l’aumento del numero di sgr, asset manager e fondi dedicati a pmi e small cap quotate», riprende Gaudenti. Intervento che consentirebbe di risolvere alcune criticità «che danneggiano il mercato italiano come liquidità, sottovalutazione, capitalizzazioni ridotte. In questo modo attori quali assicurazioni, fondi pensione, casse di previdenza ed enti dovranno essere coinvolti per allocare risorse da investire in pmi quotate».
Chi lascia. Perché uscire da Piazza Affari dopo oltre 80 anni?« Abbiamo deciso che il delisting fosse la miglior soluzione per assicurare, attraverso questa operazione e attraverso la creazione di una holding familiare che oggi controlla la banca, una governance molto solida che possa dare una prospettiva di lungo termine alla nostra azienda», spiega Arturo Nattino, ad di Banca Finnat. E che dire di Ima, colosso del packaging quotato dal 1995 al 2021? Oggi resta in mano alla famiglia Vacchi, in maggioranza, e al fondo BC Partners. «Il delisting di Ima non può essere considerato come un caso di fuga dal mercato azionario», spiega la società. «In quelle circostanze non si erano ancora verificate le condizioni incerte che oggi caratterizzano a livello globale i mercati». La scelta di Ima è stata motivata della «volontà di avviare un intenso programma di crescita, con investimenti in innovazione che avrebbero potuto richiedere un consistente assorbimento di risorse». Il gruppo ha chiuso il 2021 con ricavi consolidati di circa 1,7 miliardi. Ora sta entrando nel mondo della trazione elettrica e del packaging sostenibile. (riproduzione riservata)
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