di Teresa Campo
Conviene, ma non sempre, il meccanismo a tutela dei mutuatari previsto dalla manovra di bilancio per il 2023. Mirato a controbilanciare il rialzo dei tassi di interesse (e quindi delle rate del mutuo) effettuati dalla Bce negli ultimi mesi per combattere l’inflazione, nella realtà dei fatti non sembra funzionare, o perlomeno non sempre. La norma, che di fatto ripristina una procedura introdotta nel 2012, dà diritto ai mutuatari di rinegoziare, a costo zero, il tasso del mutuo variabile per farlo diventare fisso. Purché presentino determinati requisiti: il mutuo deve essere stato stipulato prima dell’entrata in vigore della legge Finanziaria e deve essere a tasso e rata variabile per tutta la sua durata. Non rientrano quindi i finanziamenti a rata costante, con cap o a tasso misto. Il valore iniziale del finanziamento non deve inoltre superare i 200 mila euro e, al momento della richiesta di rinegoziazione, il mutuatario deve avere un reddito Isee non superiore a 35 mila euro e non avere avuto ritardi nel pagamento delle rate. Il prestito deve essere stato erogato per acquisto o ristrutturazione di un’abitazione: rientrano nella casistica anche i mutui preso in accollo. Chi rispetta tutte le condizioni potrà passare al tasso fisso per la durata residua del mutuo. Il problema però è a quale tasso: la normativa prevede che il nuovo tasso fisso sia pari allo spread del mutuo variabile preesistente più il valore minore al momento della rinegoziazione tra l’irs 10 anni e l’Irs di durata pari alla durata residua del finanziamento o, se non disponibile, la quotazione dell’Irs per la durata precedente. Volendo il mutuatario può chiedere alla sua banca anche l’allungamento del piano di rimborso per un periodo massimo di cinque anni purché la durata residua non superi così i 25 anni (ad esempio se ho una durata residua al momento della richiesta di 22 anni, l’allungamento potrà essere al massimo di 3 anni; i 5 anni di allungamento sono possibili solo per mutui con rate residue di massimo 20 anni). Il problema come accennato è però nel tasso. Per fare un esempio prendiamo un mutuo variabile stipulato nel 2019 con debito residuo di 150 mila euro e durata residua di 22 anni che oggi paghi un tasso del 3,3% (dato da Euribor 1 mese + spread 1,5%) e quindi una rata di 799,92 euro. Con la rinegoziazione di legge il nuovo tasso sarebbe dato dalla somma dello spread 1,5% più il valore minore al momento della rinegoziazione tra Irs 10 anni (oggi 2,94%) e Irs 20 anni (durata precedente a 22 anni) oggi 2,68%. Il nuovo tasso fisso sarebbe quindi del 4,18%, corrispondente a 869,94 euro di rata, non soggetta a rincari in caso di aumento dei tassi e invece surrogabile in caso di calo. Peccato solo che sul mercato si possano trovare diverse opzioni più convenienti. La soluzione può risultare quindi conveniente solo per chi paga uno spread molto basso, inferiore all’1%.
Per quanto riguarda invece il mercato dei mutui in generale, secondo l’Osservatorio MutuiSupermarket.it le offerte al momento non hanno ancora recepito l’ultimo aumento del costo del denaro di 50 punti base. Possibile però già fare alcune previsioni per gennaio. «I mutui a tasso variabile vedranno il costo aumentare tra i 10 e i 20 punti base; al contrario i fissi potrebbero registrare una diminuzione tra i 15 e i 30 punti base coerentemente con la contrazione dell’indice Irs. A gennaio, dunque, ci aspettiamo che il gap tra costo di mutui a tasso variabile e fisso vada ulteriormente a ridursi», è lo scenario tracciato da MutuiSupermarket.it. «La contrazione del gap tra fisso e variabile non è una novità, e ha avuto un importante impatto sulla domanda di mutui di dicembre, di nuovo orientata al fisso». Il tasso fisso viene richiesto dall’86% degli utenti contro il 78% di novembre e il 50% di luglio. Cresce anche la domanda di surroga da variabile a fisso, pari al 28% delle richieste a dicembre. In crescita grazie al ripristino della garanzia Consap anche la domanda del cosiddetto mutuo giovani, pari al 40% a dicembre. (riproduzione riservata)
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