Al 31 dicembre 2021 sono stati spesi 313 miliardi di euro per 23 milioni di
prestazioni a favore di oltre 16 milioni di pensionati.
E’ quanto emerge dal report dell’Istat sulle condizioni di vita dei pensionati.
Spesa pensionistica in larga parte per vecchiaia, invalidità e superstiti
Sono 22,7 milioni le prestazioni del sistema pensionistico italiano vigenti al 31 dicembre 2021, erogate a 16 milioni di titolari, per una spesa di 313 miliardi di euro. Il 90,5% della spesa complessiva (283 miliardi) è destinata alle prestazioni di invalidità, vecchiaia e superstiti (IVS). In particolare, il 72,6% del totale (227 miliardi) è rivolto al pagamento delle pensioni di vecchiaia e anzianità, il 13,9% alle pensioni ai superstiti (43 miliardi), il 4% a quelle di invalidità (13 miliardi).
Il sistema dei trasferimenti pensionistici impegna ulteriori 25 miliardi (8,2% della spesa complessiva) per la copertura di 4,4 milioni di prestazioni assistenziali (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali e pensioni di guerra) finanziate dalla fiscalità generale. Alle prestazioni di tipo IVS e assistenziali si aggiungono 4,1 miliardi (1,3%) erogati a copertura di quasi 700mila rendite dirette e indirette per infortuni sul lavoro e malattie professionali.
L’andamento dei principali indicatori risente degli effetti della pandemia nel biennio 2020-2021, che ha avuto un impatto rilevante non solo sulle componenti della dinamica demografica, prima tra tutte la mortalità, ma anche sul mercato del lavoro e sul Prodotto interno lordo.
Nel 2021 la spesa pensionistica è aumentata di 1,7 punti percentuali rispetto all’anno precedente (nel 2020 la variazione annua è stata di +2,3 punti percentuali) e rappresenta il 17,6% del Pil (era il 18,5% nel 2020 e il 16,7% nel 2019). Dal 2000 al 2018 il rapporto tra spesa pensionistica e Pil non ha mai superato il 17%, l’aumento registrato negli ultimi due anni è il risultato della contrazione del Pil come riflesso della pandemia.
Anche il rapporto tra numero di pensionati e occupati risente dell’effetto della crisi sanitaria: è di 714 beneficiari ogni 1.000 lavoratori (717 nel 2020, 694 nel 2019). Se si considerano solo i titolari di prestazioni previdenziali, il rapporto tra pensionati che hanno versato i contributi e i lavoratori che li versano scende a 624 ogni 1.000 lavoratori (628 nel 2020, 608 nel 2019). I valori di entrambi gli indicatori risultano in aumento nel 2020 per poi tornare a calare nel 2021, seguendo quindi il trend in diminuzione registrato a partire dal 2013. Anche tenendo conto della diversa struttura della popolazione, il tasso di pensionamento è più elevato al Nord (269 pensionati ogni 1.000 abitanti), minore nel Mezzogiorno (267) ed è in assoluto più basso al Centro (261).
In media nazionale si calcolano 267 pensionati ogni 1.000 abitanti; tale valore è più alto per le donne come conseguenza della maggiore speranza di vita.
Complessivamente, il 59,1% delle singole prestazioni pensionistiche è di importo inferiore ai 1.000 euro lordi mensili. Considerando che il 32,1% dei pensionati riceve più di una prestazione, il reddito pensionistico complessivo – dato dalla somma degli importi delle singole prestazioni – è comunque inferiore a tale soglia per un terzo dei pensionati (32,8%).
Titolari in maggioranza donne, ma oltre la metà della spesa va agli uomini
Nel 2021, il valore mediano dell’importo annuo delle singole prestazioni pensionistiche è di 8.897 euro, vale a dire che la metà delle pensioni prese singolarmente non supera questo importo (Figura 1). Forti differenze si rilevano con riferimento al genere, al territorio e alla tipologia di prestazione. Le donne sono la maggioranza sia tra i titolari di pensioni (55%) sia tra i beneficiari (52%), ma gli uomini percepiscono il 56% dei redditi pensionistici. In media, l’importo di una pensione di una donna è più basso rispetto a quello riservato agli uomini per lo stesso tipo di pensione (11mila contro 17mila) e i redditi mediani percepiti dalle donne sono inferiori del 28% rispetto a quelli degli uomini (14.529 contro 20.106 euro).
La disuguaglianza di genere è influenzata principalmente dalla minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e spesso da carriere discontinue e quindi da storie contributive più brevi e frammentate, caratterizzate anche da un differenziale retributivo generalmente svantaggioso. In Italia, il tasso di occupazione femminile nella classe di età 15-64 anni è infatti al 49,4% nel 2021 (contro il 67,1% degli uomini) e nel Mezzogiorno è occupato il 33% delle donne (56,8% degli uomini). Inoltre, nel 2018 il differenziale di genere tra le retribuzioni orarie medie (GPG) è stato del 6,2% – con forti differenze tra gruppi di professioni (27,3% tra i dirigenti) – e l’incidenza dei dipendenti a bassa retribuzione è più alta tra le donne (11,6% contro 8,5% degli uomini).
Tali differenze si riflettono non solo nella diversa distribuzione delle categorie di pensione tra i due sessi, ma – a parità di prestazione – anche negli importi mediani. Infatti, per una pensione di vecchiaia un uomo percepisce 20mila euro lordi annui e una donna solo 11mila.
L’importo mediano più basso si registra nei trattamenti dei pensionati del Mezzogiorno. Al Sud e nelle Isole gli importi sono rispettivamente l’87% e il 94% del valore mediano nazionale (numero indice, base Italia=100), mentre al Nord si registrano importi mediani pari al 128% nel Nord Ovest e al 123% nel Nord Est. Le differenze territoriali nei valori mediani degli importi sono da rintracciare anche nella distribuzione territoriale per categorie di prestazioni.
Tra le pensioni di tipo Ivs (tipicamente di importo più elevato), il 51,5% è erogato al Nord e solo il 28,3% nel Mezzogiorno (per le pensioni di vecchiaia e anzianità la percentuale sale rispettivamente al 54,5% e si abbassa al 25% nel Mezzogiorno), mentre tra le prestazioni assistenziali (generalmente di importo inferiore rispetto alle prime) il rapporto si inverte: nel Mezzogiorno risiede quasi un titolare su due (47,7%) e al Nord il 31,5%.
Ciascun beneficiario percepisce in media 1,4 prestazioni, anche di diverso tipo, secondo quanto previsto dalla normativa. Nel complesso più di due terzi dei pensionati (67,9%) beneficiano di una sola prestazione. Il cumulo di più pensioni riguarda soprattutto le donne, più rappresentate nelle categorie di prestazioni con titolarità indiretta: le pensionate rappresentano il 58,5% tra i titolari di due pensioni e il 68,8% tra i titolari di tre o più prestazioni, condizione che permette alle donne di cumulare più importi e quindi di ridurre parzialmente lo svantaggio reddituale rispetto agli uomini.
In aumento i pensionati che continuano a lavorare
In media, per l’anno 2021, secondo la Rilevazione sulle forze di lavoro, i pensionati da lavoro che percepiscono anche un reddito da lavoro sono 444 mila, in deciso aumento rispetto al 2020 (+13,3%). Si ricorda che, per effetto della crisi pandemica, il 2020 aveva fatto segnare rispetto al 2019 una contrazione del 6,5% nel cumulo di pensione e lavoro. Il gruppo è composto principalmente da uomini (in oltre tre casi su quattro), da residenti nelle regioni settentrionali (in due casi su tre) e da lavoratori non dipendenti (l’86,3% dei casi) (Figura 2). Oltre la metà dei pensionati occupati possiede al massimo la licenza media (circa il 30% per il complesso degli occupati), tre su dieci possiedono un diploma mentre il segmento dei laureati rappresenta oltre un quinto del totale.
L’età media dei pensionati che lavorano è progressivamente cresciuta: nel 2021 il 78,6% ha almeno 65 anni (77,4% nel 2019) e il 45,4% ne ha almeno 70 (41,8% nel 2019); proprio al segmento più anziano si deve buona parte dell’incremento osservato nel 2021 rispetto all’anno precedente (+15,7%). L’età media dei pensionati con redditi da lavoro supera quindi i 69 anni nel 2021; tra gli uomini la media è di circa mezzo anno più elevata rispetto alle donne e tra i lavoratori indipendenti supera di tre anni quella dei dipendenti. Nel 2021 lavora nel settore dei servizi il 61,8% dei percettori di pensione (da lavoro) che continuano a essere occupati (64,8% nel 2019); al suo interno circa il 30% è impiegato nel commercio.
In crescita rispetto al 2019 i pensionati occupati in agricoltura (+2,2 punti, il 16,2%). Il confronto con il collettivo degli occupati nel suo complesso mostra differenze significative. I pensionati che lavorano sono più spesso impiegati in agricoltura – con un’incidenza quasi quattro volte superiore rispetto al totale – e nel commercio (quasi una volta e mezzo superiore), risultando sovra rappresentati anche nelle attività professionali e nei servizi alle imprese. Nei settori istruzione, trasporti e nell’industria in senso stretto, al contrario, l’incidenza è sensibilmente inferiore a quella del totale degli occupati. Il 41,4% dei pensionati che lavorano svolge una professione qualificata (compresa nei primi tre grandi gruppi della classificazione delle professioni CP2011), una quota in riduzione in confronto sia al 2019 sia al 2020, ma comunque più alta rispetto al totale degli occupati (34,5%), lo stesso si verifica per gli operai (34,3% contro 23,2%).
È invece più bassa la percentuale di pensionati che lavorano in professioni non qualificate (3,9% contro 11,8%). Considerando solo l’occupazione indipendente (l’86,3% dei lavoratori beneficiari di una pensione da lavoro), la quota è aumentata di circa due punti percentuali nell’ultimo biennio. Il 56,3% è rappresentato da lavoratori autonomi (in aumento rispetto al biennio 2019-2020), il 24,9% da liberi professionisti (-2,1 punti rispetto al 2019), il 7,1% da coadiuvanti nell’azienda familiare e il 6,0% da imprenditori (in calo dopo la crescita del 2020). Tra l’esiguo gruppo dei dipendenti, invece, il 57,3% è operaio e circa il 31,4% è impiegato, entrambi in aumento rispetto ai due anni precedenti.
Un titolare di pensione in quasi una famiglia su due
Nel 2020, si stima che in quasi una famiglia su due sia presente almeno un pensionato (oltre 11,8 milioni di nuclei); in particolare, nel 32,8% dei casi si tratta di un solo titolare di pensione e nel 13,1% di due e più. I pensionati vivono più frequentemente in coppia senza figli (37,2%) e da soli (27,7%). È invece più contenuta la percentuale di pensionati che vivono in coppia con figli (17,3%), in famiglie con singolo genitore (11,6%), oppure in altra tipologia (7,8%), cioè in famiglie di membri isolati o composte da più nuclei.
Rispetto al resto del Paese, i pensionati del Nord vivono più spesso da soli (29,3%) o in coppia senza figli (40,8%), mentre i pensionati del Mezzogiorno risiedono con maggior frequenza in coppia con figli (21,7%); infine i pensionati del Centro si trovano più diffusamente in famiglie di altra tipologia (10,5%).
I titolari di pensioni di vecchiaia e anzianità vivono relativamente di più in coppie senza figli (45,9%), mentre i percettori di pensioni di reversibilità vivono prevalentemente da soli (60,1%) e in misura minore con i figli in qualità di unico genitore (26,4%), essendo rappresentati nella stragrande maggioranza dei casi da anziane vedove. Per le famiglie con almeno un titolare, i trasferimenti sociali in favore dei pensionati (da qui denominati semplicemente trasferimenti pensionistici) rappresentano, in media, il 64% del reddito familiare netto disponibile (al netto dei fitti imputati); la quota restante è costituita per il 27,8% da redditi da lavoro e per l’8,3% da altri redditi (primariamente affitti e rendite finanziarie).
Le pensioni di anzianità e vecchiaia, unitamente alle liquidazioni di fine rapporto per quiescenza, forniscono mediamente il 46,1% delle loro risorse economiche, i trattamenti di reversibilità l’8,7% e le restanti pensioni il 10,1%. Per oltre 7,1 milioni di famiglie (il 60% delle famiglie con pensionati) i trasferimenti pensionistici costituiscono più dei tre quarti del reddito familiare disponibile; nel 24,4% dei casi le stesse prestazioni sono l’unica fonte di reddito (quasi 2,9 milioni di famiglie), mentre per il 25,6% delle famiglie il loro peso non supera la metà delle entrate familiari. Se in famiglia vi sono solo pensionati, sale all’80,1% la percentuale di famiglie con trasferimenti pensionistici almeno pari a tre quarti del loro reddito complessivo.
Rischio povertà più basso tra le famiglie con pensionati
Nel 2020, il reddito medio netto (esclusi i fitti figurativi) delle famiglie con pensionati è stimato in 33.543 euro (2.795 euro mensili), in lieve riduzione rispetto al 2019 sia in termini nominali (-0,8%) che reali (-0,7%) e, seppur di poco, superiore a quello delle famiglie senza pensionati (2.683 euro mensili) che subiscono una maggiore contrazione nei due anni (-1,0% e -0,9% rispettivamente in termini nominali e reali). La metà delle famiglie con pensionati ha un reddito netto inferiore ai 26.412 euro (2.201 euro mensili), valore mediano che scende a 22.995 euro nel Mezzogiorno, mentre si attesta intorno a 30.017 euro nel Centro e a 27.869 euro nel Nord.
Le famiglie con pensionati presentano un reddito mediano lievemente più basso rispetto a quello delle famiglie senza pensionati. Tale situazione, però, si inverte se si considera il reddito netto familiare equivalente, cioè includendo l’effetto delle economie di scala e rendendo comparabili i livelli di benessere tra famiglie di diversa composizione. Infatti, il valore mediano in termini equivalenti è pari a 18.885 euro per le famiglie con pensionati contro i 17.025 euro delle restanti famiglie.
Il vantaggio comparativo è ulteriormente avvalorato dal rischio di povertà che è pari al 14,6% per le prime e quindi di 10 punti percentuali e mezzo inferiore a quello delle seconde. Ciò conferma l’importante ruolo di protezione economico-sociale che i trasferimenti pensionistici rivestono in ambito familiare. Il rischio di povertà delle famiglie con pensionati si riduce di oltre un punto percentuale rispetto all’anno antecedente la pandemia, mentre quello delle famiglie senza pensionati cresce di 0,9 punti percentuali. La presenza di un pensionato all’interno di nuclei familiari “vulnerabili” (genitori soli o famiglie in altra tipologia) riduce sensibilmente l’esposizione al rischio di povertà, rispettivamente dal 31,4% al 15% e dal 33,9% al 12,7%. Il cumulo di pensione e reddito da lavoro abbassa ulteriormente il rischio di povertà: 6,4% contro 16,6% delle famiglie sostenute da titolari di sole pensioni. Anche l’apporto economico dei componenti non pensionati, in particolare se occupati, riduce il rischio di povertà pur in assenza di cumulo (8,5%).