Le somme corrisposte dal datore di lavoro a titolo risarcitorio per l’abusivo utilizzo di contratti a termine reiterati e in successione tra loro (danno da precarizzazione), devono qualificarsi come perdita di chance e non sono soggetti a tassazione. Tali somme, infatti, non si configurano come reintegrazione di retribuzioni non corrisposte, bensì come compensazione di un pregiudizio derivante dall’eccessiva e abusiva precarizzazione del rapporto di lavoro. Con queste conclusioni, che si leggono nella sentenza n. 3129/05/17, la Ctr del Lazio ha accolto l’appello proposto da una contribuente della provincia di Viterbo, ribaltando la decisione della commissione provinciale. Il caso nasce da un’istanza di rimborso, presentata per le somme trattenute dal datore di lavoro a titolo di imposte, in relazione al risarcimento corrisposto a un lavoratore, previo accertamento del Tribunale. Secondo la contribuente, le somme in questione non andavano sottoposte a tassazione, per cui chiedeva il rimborso delle ritenute subite. L’Agenzia delle entrate opponeva un tacito diniego e contro il silenzio rifiuto veniva proposto ricorso in commissione tributaria. Il primo grado si concludeva con il rigetto del ricorso, mentre l’appello si è definito nel senso opposto. In particolare, la Ctr ha analizzato il caso concreto che aveva dato luogo al risarcimento, individuando il motivo della corresponsione delle somme in un’abusiva ed eccessiva precarizzazione della posizione lavorativa della contribuente, sottoposta a continui rinnovi di contratti a termine: tale situazione le aveva cagionato un danno, riconosciuto dal Tribunale. Le somme in questione, spiega il giudice romano, non sono imponibili in quanto costituiscono il risarcimento di un danno da perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, quale conseguenza dell’abusiva precarizzazione del lavoratore. Non si tratta, dunque, di retribuzioni sostitutive, bensì di una misura di reintegrazione di un pregiudizio (patrimoniale, in quanto lesivo di interessi connotati di rilevanza economica) che non sconta alcuna tassazione. Le ritenute operate e versate dal datore di lavoro, dunque, devono essere rimborsate alla contribuente, con aggiunta degli interessi decorrenti dal momento della corresponsione. All’accoglimento dell’appello, la Ctr ha fatto seguire la condanna alle spese a carico dell’amministrazione.
Nicola Fuoco
[omissis] Il punto è che, come ritenuto dalla sentenza del tribunale di Viterbo e come poi ampiamente chiarito dalla richiamata giurisprudenza di legittimità, in un caso quale quello in esame non si versa in un’ipotesi di danno consistente in una perdita di reddito. La lavoratrice qui appellante non poteva ambire a un prolungamento del rapporto di lavoro (stante il divieto di conversione del contratto a termine nel settore pubblico, a presidio del principio dell’accesso tramite concorso al lavoro nelle pubbliche amministrazioni, come rilevato nella sentenza di condanna e ribadito dalla Suprema Corte) e il danno sofferto è consistito non nella perdita di retribuzioni a lei plausibilmente spettanti, ma, appunto, nello stato di precarietà occupazionale in cui ella è venuta a trovarsi per effetto della plurima e tuttavia effimera reiterazione di contratti a termine. Conseguentemente non può esservi imposizione fiscale, ex articolo 6, secondo comma, Tuir, a mente del quale ( ). Può altresì osservarsi che la Cassazione ha già avuto modo di affermare, specificamente, la non imponibilità, per mancanza di natura reddituale, della somma ottenuta quale risarcimento di un danno da perdita di chance, da intendere come danno emergente (non quale lucro cessante), in un caso in cui quest’ultima consisteva nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa (cfr. Cass. n. 29579/2011). E si è visto che la conseguenza dannosa della precarizzazione (illegittima) del rapporto di lavoro è stata prioritariamente identificata dalla recente giurisprudenza di legittimità proprio quale perdita di chance (di un’occupazione migliore: Cass. S.U. n. 5072/2016).
In conclusione, occorre riformare la sentenza impugnata, che ha ravvisato l’imponibilità fiscale del risarcimento in questione e ha ritenuto legittimo il diniego di rimborso opposto dall’Agenzia delle entrate in ordine alla somma trattenuta tramite il Ministero dell’istruzione quale prelievo Irpef sull’importo corrisposto a titolo risarcitorio alla contribuente qui appellante – e conseguentemente disporre il pagamento della somma oggetto dell’istanza di rimborso.
L’accoglimento dell’appello comporta l’attribuzione a carico dell’amministrazione finanziaria delle spese processuali di controparte per entrambi i gradi di giudizio.
PQM
a) In riforma della sentenza impugnata condanna l’A.F. al pagamento in favore dell’appellante della somma di 3.978,47 oltre interessi legali tributari a decorrere dal 6 marzo 2014;
b) condanna l’A.F. al rimborso, in favore dell’appellante, delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, che si liquidano, con riferimento a ciascuno dei due gradi, in 500,00 oltre accessori.
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