di Stefania Peveraro
La ricerca sui mercati finanziari sarà pagata dagli asset manager. Almeno è questa la scelta che sempre più soggetti stanno facendo in vista dell’entrata in vigore, il 3 gennaio, della direttiva Mifid 2. Nei giorni scorsi la lista si è allungata con un nome blasonato che ha annunciato che si farà carico dei costi di ricerca e analisi. Si tratta di Eurizon Capital, la società di gestione del gruppo Intesa Sanpaolo guidata dall’amministratore delegato Tommaso Corcos. E a livello internazionale la stragrande maggioranza delle case di gestione ha preso la stessa decisione (tabella in pagina). In base alla nuova direttiva Mifid 2, infatti, i costi della ricerca dovranno essere facilmente individuabili e separati dalle commissioni di intermediazione, il che significa che gli asset manager devono scegliere (e comunicare al mercato) se trasferire ai clienti il prezzo pagato ai broker per le analisi oppure se sostenerlo di tasca propria. «Uno dei principali obiettivi di Mifid 2 è proprio migliorare la trasparenza nei mercati finanziari: pagare la ricerca attraverso le commissioni di trading è considerata una forma di indebito incentivo e per questo motivo le nuove regole prevedono la separazione dei servizi di esecuzione da quelli accessori, come appunto ricerca e accesso al management delle aziende», spiega Matteo Lombardo, responsabile advocacy di Cfa Society Italy. «Si tratta del cosiddetto unbundling; in parole semplici, dal prossimo anno banche e broker dovranno fornire e prezzare separatamente i due servizi».
Peraltro stiamo parlando di costi molto contenuti per i bilanci dei colossi dell’asset management. La società svizzera Vontobel nel comunicare che non avrebbe riaddebitato ai clienti quei costi ha dichiarato che «una tale decisione comporterà costi supplementari nell’ordine di 1-5 milioni di franchi svizzeri all’anno, già contemplati negli obiettivi 2020 pubblicati alla fine di agosto 2017», mentre Vanguard Group ha stimato che i costi della ricerca saranno meno di 5 milioni di euro all’anno, in linea con quanto ha dichiarato la britannica Jupiter Fund Mnagement (5 milioni di sterline).
La scelta di accollarsi i costi della ricerca è in molti casi dovuta alle complessità che le regole Mifid impongono nell’approntare una struttura di pagamento per addebitare i costi ai clienti. Lombardo spiega che nel nuovo modello previsto da Mifid 2 le società di gestione potranno pagare la ricerca in due modi: direttamente con il proprio bilancio oppure tramite un cosiddetto research payment account (Rpa) dedicato, che a sua volta potrà essere finanziato da una commissione aggiuntiva pagata dai clienti oppure con le commissioni di transazione, purché queste ultime siano comunque separate dal servizio di esecuzione degli ordini. In questi due ultimi casi, però, i gestori dovranno giustificare le spese per la ricerca e l’Rpa dovrà sottostare a severe regole, tra le quali: il budget di spesa deve essere concordato a priori e può essere utilizzato solo per pagare terze parti (non può finanziare spese interne del gestore); non può essere legato al volume delle transazioni con i broker; ci deve essere una chiara tracciabilità di tutti i pagamenti fatti.
Nonostante queste complessità, ci sono anche nomi noti dell’asset management che hanno dichiarato che ribalteranno i costi della ricerca sui clienti. A oggi lo hanno detto Amundi, Carmignac, Invesco, Man Group, Schroders e Union Investment. Il motivo? In molti casi per evitare una riduzione di redditività del business.
In effetti, se è vero che le spese della ricerca rappresentano una porzione relativamente piccola del totale dei costi pagati dagli investitori finali, per un gestore di fondi assorbirli significa accollarsi una spesa viva. Secondo le stime di Oliver Wyman, i costi della ricerca pesano in media tra 1 e 3 punti base del totale dei 60 punti sopportati dai clienti finali dei gestori attivi. Tuttavia per quei gestori assorbire quei costi può significare incrementare del 2.4% le spese operative e quindi ridurre i profitti del 4-7%. Restringendo i calcoli al solo settore delle gestioni azionarie, Oliver Wyman ha calcolato che i costi addizionali imposti dal rispetto delle regole di Mifid 2 potrebbero portare le case di investimento a ridurre la spesa per la ricerca di circa 1,5 miliardi e che quella cifra potrebbe salire a 3 miliardi nel caso di una guerra sui prezzi.
Ma quanto vale davvero la ricerca? Cfa Society Italy ha raccolto le dichiarazioni in proposito di numerosi asset manager e ha stilato una sorta di listino prezzi (si veda la tabella in pagina). In media si parla di servizi base che costano intorno a 5 mila dollari l’anno e che possono salire a 20-50 mila dollari per un servizio più completo, ma sempre soltanto di ricerca scritta, e che possono arrivare a 100-120 mila dollari all’anno se si comprende anche l’interazione con gli analisti.
Lombardo sottolinea anche che c’è un’ampia dispersione nella percezione del costo «equo» della ricerca. Da un lato, i gestori sono inondati da una marea di report, il cui valore aggiunto è discutibile: ora che dovranno pagare per idee che non hanno richiesto o che ritenevano di ricevere gratuitamente, la loro domanda inevitabilmente diminuirà. Dall’altro lato, i broker hanno tipicamente «regalato» la ricerca nella speranza di guadagnare attraverso le commissioni di transazione: dal prossimo anno dovrà invece essere prezzata in maniera diretta. Come farlo, e soprattutto a quale prezzo, rimane uno dei punti di discussione più caldi tra buy-side e sell-side.
I servizi di ricerca su azioni e obbligazioni non spariranno completamente, ma la situazione di dozzine di analisti che sfornano gli stessi report sugli utili trimestrali potrebbe avere i giorni contati. I gestori saranno disposti a pagare solamente per ricerche approfondite con una prospettiva unica e differenziata. È evidente che questa situazione avrà un impatto anche a livello di concentrazione del settore dell’asset management. Nella gestione dei fondi la riduzione dei margini di profitto causata dall’esplosione delle strategie passive farà sì che le masse diventeranno ancora più rilevanti: i gestori più piccoli dovrebbero soffrire di più (a meno che non siano specializzati in prodotti di nicchia), mentre i più grandi proveranno a far leva sulle dimensioni per spalmare i costi fissi.
Infine, sottolinea Cfa Society nel suo report, va ricordato che, anche se le regole sono introdotte dalle autorità europee, l’impatto sarà globale: molti asset manager hanno dichiarato che adotteranno un singolo metodo di pagamento, anziché sistemi multipli in differenti regioni, per minimizzare l’impatto operativo. Gli analisti del sell-side dovranno dimostrare in maniera esplicita che la loro ricerca vale il prezzo pagato, con gli esborsi da parte del buy-side che potrebbero ridursi di 15-20% o più. Le banche saranno costrette a rimodellare la loro offerta, riducendo ad esempio la copertura delle small-cap o dei mercati periferici: la separazione dei pagamenti per la ricerca dalle commissioni di trading potrebbe pertanto favorire le boutique di ricerca indipendente, in particolare quelle con una specializzazione settoriale o geografica. (riproduzione riservata)
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