di Rebecca Carlino
In questo 2016 difficile per il sistema bancario italiano una buona notizia arriva dal mondo del risparmio gestito. La raccolta dell’asset management ha ripreso a correre negli ultimi mesi dell’anno dopo un primo semestre che aveva visto un rallentamento del settore, rispetto ai dati record dell’anno precedente (130 miliardi). Mancano ancora i numeri relativi al mese di dicembre, ma secondo quanto rilevato dall’Ufficio Studi di Assogestioni, e relativi a novembre, in 11 mesi il settore ha raccolto oltre 54,3 miliardi di euro portando gli asset complessivi dell’industria oltre i 1.902 miliardi di euro. A guidare i flussi soprattutto i fondi di lungo termine, che nel corso dell’anno hanno raccolto oltre 32 miliardi di euro, grazie ai 16,7 miliardi registrati dai prodotti obbligazionari e ai 14,3 miliardi dei prodotti flessibili. Si apprestano a chiudere l’anno con numeri particolarmente positivi anche le gestioni di portafoglio istituzionali che tra gennaio e novembre hanno registrato flussi pari a circa 21 miliardi di euro.
A livello di patrimonio, dei 1.902 miliardi gestiti dall’industria monitorata da Assogestioni, oltre 935 miliardi sono investiti in gestioni collettive, mentre le gestioni di portafoglio gestiscono asset per oltre 967 miliardi.
Il 2016 è stato anche segnato dall’acquisizione di Pioneer da parte di Amundi. Grazie a questa operazione il colosso francese sale nella top ten del risparmio gestito italiano. Infatti, in base ai dati Assogestioni aggiornati alla fine del terzo trimestre, Amundi contava su un patrimonio gestito di 42,7 miliardi di euro, mentre Pioneer è il terzo gestore con 146 miliardi; quindi insieme arrivano a oltre 188 miliardi. E per la prima volta un asset manager estero conquista il terzo posto della classifica degli asset, dietro a Generali (474 miliardi sempre a fine settembre) e Intesa Sanpaolo (367 miliardi).
Per il gruppo di Piazza Gae Aulenti, che aveva creato l’asset manager Europlus a Dublino nel 1998 (diventata Pioneer Investment nel 2000 dopo l’acquisizione dell’omonimo asset manager Usa), la cessione di Pioneer ha consentito di fare cassa. Mentre per chi mantiene in casa la fabbrica prodotto l’asset management potrà consentire di migliorare gli utili, dando entrate in un periodo in cui i margini di interesse sono schiacciati dal basso costo del denaro. E questo sarà ancora più vero se ci sarà un cambiamento dell’asset allocation verso prodotti che danno maggiori margini o che consentono di stabilizzare la raccolta.
Dai dati Assogestioni emerge infatti che hanno avuto un ruolo da protagonista i fondi flessibili che hanno raccolto in 11 mesi oltre 14 miliardi di euro. E proprio sulla composizione dei portafogli degli italiani e su un confronto con quelli degli altri Paesi europei si aprono opportunità per chi opera nell’industria. In base ai dati Abi, gli attivi delle famiglie italiane si attestavano a 4.047 miliardi nel primo trimestre 2016; di questi il 32% è investito in cash e depositi, il 10% in bond (di cui 4% è rappresentato da emissioni di banche italiane), il 22% in azioni, l’11% in fondi comuni e il 21% tra polizze vita e fondi pensione. La quota importante ricoperta dalle azioni non è dovuta a un’alta propensione al rischio degli italiani, ma al fatto che molte famiglie hanno investito nella loro azienda. La quota destinata a fondi pensione e polizze è cresciuta rispetto al passato (nel 2014 rappresentavano il 19%, contro il 21% di oggi), ma il confronto con gli altri Paesi europei mostra come ci sia margine di crescita per il business delle polizze vita e dei fondi pensione.
Il confronto con quanto accade nel resto d’Europa indica questa direzione. In Francia a fine 2015 la ricchezza delle famiglie si attestava a 4.869 miliardi, di cui il 28% investito in depositi, l’1% in corporate bond, il 21% in azioni, il 7% in fondi e il 34% in fondi pensione e polizze vita. In Germania, sempre a fine 2015, la ricchezza era pari a 5.482 miliardi, di cui 39% in depositi, 3% in corporate bond, 10% in azioni, 10% in fondi comuni e il 31% in fondi pensione e polizze vita. La ricerca sottolinea come il differenziale per i prodotti destinati al welfare sia ancora molto ampio e offra una grande opportunità per l’industria.
D’altronde, l’industria dell’asset management è caratterizzata da ritorni alti, una buona capacità di generazione di cassa e bassi requisiti di capitale. Un mix particolarmente interessante in questo momento in cui banche e assicurazioni devono fare i conti sull’impatto dei tassi bassi sui loro margini e nel frattempo rispondere alla richiesta di una sempre maggiore forza patrimoniale richiesta dalle autorità, in modo da evitare che si possa ripresentare una crisi delle dimensioni di quella del 2008. A differenza di quanto è avvenuto per le banche, proprio gli asset manager in questi anni sono riusciti ad accumulare capitale in eccesso, che è costoso da mantenere in una situazione di costo del denaro a zero. C’è quindi tutto l’incentivo affinché questo capitale venga utilizzato per crescere. Il tutto in un industria che si presenta ancora frammentata e che quindi offre ancora spazio per aggregazioni che consentano economie di scala o un offerta più efficace. Una strategia che può essere anche di difesa in vista delle sfide che aspettano i gestori. Da una parte la sempre maggior diffusione dei prodotti indicizzati porterà a una pressione ad abbassare le commissioni; dall’altra, dopo anni di rally dei mercati che avevano abituato i clienti a performance da record, gli asset manager dovranno attrezzarsi per una fase di maggiore instabilità e di potenzialità di rendimento più contenute. Infine anche questa industria dovrà affrontare le sfide che porta con sé l’evoluzione tecnologica, che può permettere di ridurre i costi, ma che abbatte le barriere all’ingresso. Come hanno potuto sperimentare i tassisti con Uber o gli alberghi con Airbnb, i gestori dovranno fare i conti con la Fintech.
Molte ricerche condotte sul settore sono arrivate alla conclusione che gli asset manager per crescere ancora dovranno essere capaci di dimostrare di produrre valore e questo lo potranno fare attraverso campagne di marketing, misure rivolte alla distribuzione e politiche di prezzo mirate. Di fatto vincerà chi saprà
sviluppare e utilizzare sistemi avanzati che consentano di tagliare la propria offerta in base a cosa può rivelare l’analisi dei cosiddetti big data.
Detto questo, il fattore umano resta importante in questo business. Una ricerca di Greenwich Associates ha rivelato che la capacità di persuasione e le abilità di presentare l’offerta saranno sempre più critiche per gli investment manager che vogliano ottenere mandati di gestione da chi controlla gli asset istituzionali, quali fondi pensione e fondazioni. Ma soprattutto vanno convinti i loro consulenti. Sempre Greenwich associates ha calcolato che l’86% degli investitori istituzionali Usa e il 92% di quelli britannici si appoggia a consulenti per prendere le proprie decisioni di investimento. Un paradigma che può essere applicato anche quando si va ad analizzare il mercato retail, dove l’acquisto dei fondi è intermediato dagli sportelli bancari o dai promotori finanziari. E proprio questi ultimi in Italia hanno dimostrato soprattutto negli ultimi otto anni, dalla crisi dei subprime in poi, di garantire ai gestori una buona capacità di tenuta nei momenti difficili di mercato e un’ottima capacità di raccolta nelle fasi positive. Da inizio anno a fine novembre Banca Generali ha registrato una raccolta di 4,9 miliardi, Banca Mediolanum di 4,5 miliardi e Finecobank 4,15 miliardi. (riproduzione riservata)
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