In pensione più tardi, e con meno soldi in tasca. Dal 1° gennaio 2016 scatterà uno scalone previdenziale che penalizza i lavoratori, soprattutto donne, che non riescono a maturare i requisiti per maturare il diritto all’assegno previdenziale prima della mezzanotte del 31 dicembre.
È l’effetto dell’applicazione degli indicatori legati all’aumento della speranza di vita, che allunga di quattro mesi la data del pensionamento, ma anche della entrata in vigore di alcune norme contenute nella legge Fornero che penalizzano le donne lavoratrici allungando la permanenza al lavoro di un anno e quattro mesi per le autonome e un anno e dieci mesi per le dipendenti. La misura dell’assegno previdenziale è invece ridotta a causa dei nuovi coefficienti di trasformazione del montante contributivo, fissati tenendo conto di alcuni parametri statistici come l’aumento della vita media e alcuni indicatori economici. Se è vero che il taglio nella maggior parte dei casi si aggira intorno al 2%, ci sono anche decurtazioni che arrivano fino all’8%. Un meccanismo che negli ultimi anni ha falcidiato le rendite dei neopensionati: basti pensare che un lavoratore andato in pensione a 65 anni nel 1996 ha applicato un coefficiente di trasformazione del montante contribuivo pari a 6,136. Per chi andrà in pensione dal 2016 lo stesso coefficiente sarà del 5,326. Da solo fa il 13% di pensione in meno. In realtà le modifiche al regime previdenziale che entrano in vigore allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre sono molto più numerose e complesse (si veda l’insertino pubblicato su questo numero di ItaliaOggi Sette da pagina 37).
Resta il fatto che negli ultimi vent’anni praticamente tutti i governi sembrano aver spinto sull’acceleratore della riduzione delle (future) pensioni e dell’innalzamento dell’età pensionabile. Chi ha iniziato a lavorare nel 1996 poteva aspettarsi, a certe condizioni, di andare in pensione dopo soli cinque anni con il sistema contributivo. Lo stesso lavoratore, oggi, con 19 anni di lavoro non ha ancora maturato il diritto alla pensione, perché gradualmente il numero minimo di versamenti contributivi è stato innalzato a 20 anni. Non ha tutti i torti se si sente come il classico asino con la carota davanti al muso, che non riesce mai a raggiungere. E non è infondato il sospetto che lui non entrerà mai nella magica atmosfera dei diritti quesiti, e rischia di passare tutta la sua vita a inseguire diritti di altri senza mai poterli raggiungere.
Facile comprendere perché diventi sempre più pressante la questione del conflitto intergenerazionale. Il punto critico è che chi è già in pensione ha un trattamento nettamente migliore di chi è ancora al lavoro. E tanto maggiore è la discriminazione quanto più grande è la differenza di età. La conseguenza concreta di questo stato di cose è certificata dal raffronto tra la ricchezza delle famiglie più giovani e più anziane. Secondo un recentissimo rapporto Bankitalia, tra il 1995 e il 2014 la ricchezza netta media delle famiglie con a capo chi ha meno di 34 anni è scesa verticalmente, da 100 a 40. Quella con capofamiglia sopra i 65 anni è salita invece da 100 a 160. Vent’anni fa la ricchezza media delle famiglie anziane era di poco inferiore a quella delle giovani. Oggi, è tre volte e mezzo superiore. Prima o poi scoppierà il bubbone.
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