Circa 5,5 miliardi di euro di depositi bancari (5,8 miliardi di dollari) e un fatturato di poco più di 200 milioni di euro (218,6 milioni di dollari). A tanto ammonta il potenziale della finanza islamica, che cresce del 15-20% all’anno. Un piatto troppo ricco per lasciarselo sfuggire. Ma per evitare questo occorre che l’Italia non si faccia cogliere del tutto impreparata e si attrezzi a livello normativo. In tale scenario sono sempre di più le iniziative imprenditoriali italiane orientate a tale tipo di mercato, come anche dimostrato dal fatto che Simest, società a partecipazione pubblica che assiste le imprese italiane all’estero, sta lavorando a un «Fondo Mediterraneo di Partnership», parte del quale sarebbe conforme agli strumenti di finanza islamica. Verso questo modello di finanza in Italia prevalgono, appunto, ancora diversi problemi di coordinamento normativo, sia bancario che fiscale. Le banche islamiche offrono, infatti, strumenti finanziari che rispondono a due criteri fondamentali: l’impresa non deve svolgere un’attività contraria alle regole religiose e, nel caso di imprese che ricorrano all’indebitamento sui mercati finanziari convenzionali, queste devono rientrare entro determinati coefficienti di performance, al fine di non dover ricorrere a un eccessivo ricorso al prestito a interesse. Per quanto riguarda poi le modalità di erogazione del credito, i contratti islamici di finanziamento sono Pls (profit and loss sharing), basati cioè sulla logica della condivisione del rischio e sulla compartecipazione nei profitti e nelle perdite. Insomma un sistema in veloce evoluzione, su cui l’Italia rischia di restare indietro. In Gran Bretagna, del resto, già a più di venti istituti sono state concesse le islamic windows (in pratica uffici e sportelli ad hoc), con possibilità di creare conti correnti speciali, che utilizzano la compartecipazione agli utili al posto della garanzia sul valore nominale del deposito attraverso i tassi di interesse.
La Gran Bretagna è inoltre normativamente intervenuta per eliminare i problemi di imposizione fiscale legati a tale impostazione. La discrasia tra il sistema della finanza islamica e quello occidentale e tra i relativi sistemi giuridici potrebbe infatti comportare, anche in Italia, conseguenze fiscali in grado di impedire o comunque rallentare l’apporto di capitali legati alla finanza islamica. Nella finanza islamica assume, per esempio, un ruolo fondamentale il divieto di Ribà, corrispondente al nostro «interesse».
L’interesse su finanziamento, dovuto a prescindere dai risultati economici derivanti dall’impiego del denaro prestato, viene infatti visto come un ingiustificato arricchimento. Nell’ottica del divieto di (ingiustificato) arricchimento sul prestito finanziario, quindi, anche il mutuo diventa un contratto gratuito e il mutuatario dovrà restituire il solo capitale prestato senza interessi.
La remunerazione del prestito potrà semmai essere legata ai benefici che il mutuatario ricava dalla somma e ai costi che il mutuante effettivamente sopporta. Ma laddove questo fosse effettuato in Italia quale dovrebbe essere il trattamento fiscale dell’applicazione dei tassi d’interesse (o meglio della mancata applicazione dei tassi di interesse)?
La maggiorazione di corrispettivo che, in un’operazione di mutuo «islamico», viene pagata dal cliente alla banca sul prezzo di riacquisto potrebbe comportare una riqualificazione del mark up come interesse, con importanti conseguenze fiscali sia per i clienti che per le banche (basti pensare alla deducibilità degli interessi ai fini delle imposte sui redditi per il cliente e alla diversa qualificazione ai fini Irap per la banca).
Anche la Corte di cassazione, dal canto suo, ha affermato che i finanziamenti si presumono sempre fruttiferi di interessi. Ai fini fiscali, infatti, per i capitali dati a mutuo, gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto; se le scadenze non sono stabilite per iscritto, gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta e se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale.
Per tali motivi la Gran Bretagna, come detto, seguendo il principio «no obstacles, no special favors», ha emendato il proprio sistema fiscale e ha stabilito standard specifici di coperture del capitale e di gestione del rischio.
Alla luce dell’esperienza del Regno Unito e delle caratteristiche dei prodotti islamici, si comprende quindi facilmente come lo sviluppo della finanza islamica sia fortemente condizionato dalla predisposizione di un quadro normativo favorevole, sia in termini fiscali (imposta di registro, deducibilità fiscale degli oneri finanziari, Iva) che regolamentari (recepimento dei prodotti islamici nella definizione e regolamentazione dell’attività bancaria). In tal senso, sempre tornando all’esempio della Gran Bretagna, i primi interventi per garantire una tassazione neutrale ai diversi sistemi finanziari si sono avuti con il «Finance Act» del 2003 e le successive modifiche del 2005. È stata, infatti, prima introdotta l’abolizione della doppia imposta di registro nelle transazioni immobiliari assimilabili al contratto Murabaha e poi creata la nozione di reddito finanziario alternativo, alla quale si è riconosciuta la medesima deducibilità fiscale degli interessi passivi. Senza mai citare nomi di strutture contrattuali islamiche, il legislatore inglese ha quindi definito delle nozioni generiche, specificando però precise condizioni entro le quali è stato possibile far rientrare i principali contratti islamici. In materia di tutela dei depositi, invece, il problema è stato superato con l’inclusione, nella legislazione inglese, di alcune specifiche clausole nel contratto di deposito. Durante la fase iniziale si potrebbe del resto sondare le potenzialità del mercato attraverso le islamic windows. Le finestre islamiche, infatti, permettono di soddisfare i bisogni base della clientela di una società islamica, offrendo principalmente depositi e strumenti trade-finance per piccole e medie imprese. Una legge quadro per recuperare il ritardo italiano sulla finanza islamica sarebbe del resto importante anche secondo l’Abi.
Come, infatti, già evidenziato dal vicepresidente dell’associazione bancaria in un convegno tempo fa organizzato sul tema, «è importante non restare indietro e modificare il nostro impianto normativo, civilistico e fiscale, per favorire lo sviluppo della finanza islamica in Italia, aprendo la strada a nuove opportunità». Insomma ci potrebbero essere ormai, anche in Italia, tutti i presupposti per regolamentare lo sviluppo di tale tipo di finanza anche in sede normativa, con un progetto organico e completo. Anche perché una specifica regolamentazione assicurerebbe, al contempo, l’inclusione di tale sistema nell’ambito dei controlli bancari e antiriciclaggio di cui alla normativa italiana e comunitaria e impedirebbe altresì che tali capitali possano prendere strade invece non tracciabili, come, per esempio, quella dell’hawala, canale informale di intermediazione e trasferimento finanziario non registrato, basato su sistemi di codici e compensazioni, che sfugge a ogni statistica, contabilizzazione e controllo.
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