La sanità pubblica italiana, fiore all’occhiello per tanti anni del nostro sistema di welfare, rischia seriamente di divenire un lusso per una piccola élite. Anzi, lo sta già diventando, anche se ammetterlo suonerebbe estremamente impopolare. I servizi assistenziali sono infatti considerati dagli italiani alla stregua dei beni di lusso e quindi inseriti fra le spese da tagliare o rimandare a un periodo economico più favorevole.
A fronte della riduzione del potere di acquisto, gli italiani hanno tagliato le spese in sanità negli ultimi anni. La minore spesa pubblica non è, infatti, sostituita da maggiore spesa privata, che è anzi diminuita dell’1,5% nel 2012 e del 5,3% nel 2013, nonostante il forte aumento dei ticket. Se l’ammontare complessivo dei ticket è rimasto più o meno stabile fino al 2007, da allora al 2013 è praticamente raddoppiato, passando da 1,6 a 3 miliardi di euro, con la forte discontinuità dovuta all’introduzione, nel 2011, del cosiddetto superticket sulla specialistica. La maggiore spesa per i ticket è stata, però, più che controbilanciata dalla diminuzione delle altre spese private. Inoltre, all’indomani dell’introduzione del superticket, la domanda di prestazioni da parte dei cittadini si è ridotta.
È questo uno dei principali argomenti di discussione sollevati dal rapporto Oasi (Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano) 2014 sullo stato della sanità italiana, messo a punto dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) e dalla Scuola di direzione aziendale dell’università Bocconi.
Rapporto che peraltro ha registrato come i conti della sanità siano a posto. Ma ora che il deficit è azzerato, comincia la parte più difficile: riorganizzare i servizi allineandoli all’epidemiologia emergente.
Per la prima volta in quasi 20 anni, la spesa pubblica in sanità nel 2013 è diminuita, sia in termini assoluti (i 112,6 miliardi spesi rappresentano una riduzione dell’1,2% rispetto al 2012), sia in rapporto al Pil (passando dal 7,3% al 7,2%). Il disavanzo si è ridotto a circa l’1% della spesa corrente e anzi, se si contabilizzano le addizionali Irpef incassate nell’anno successivo a ripiano del deficit dell’anno precedente, si può addirittura contabilizzare un avanzo di 518 milioni nel 2012 e di 811 milioni nel 2013.
“Le aziende sanitarie hanno compiuto un piccolo miracolo: pareggio di bilancio e assenza di incremento di spesa da 5 anni con una sostanziale tenuta del sistema nonostante invecchiamento della popolazione, peggioramento epidemiologico, nuove tecnologie e incremento della povertà”, hanno affermato i curatori del rapporto, Elena Cantù e Francesco Longo. “Il sistema è ora pienamente sostenibile. Dalla fase di rapido contenimento della spesa prevalentemente con logiche input based dobbiamo ora riorganizzare i servizi allineandoli all’epidemiologia emergente: è un lavoro di medio periodo, ora possibile, solo perché abbiamo messo a posto i conti. Questa è la sfida che attende il Ssn e le aziende sanitarie devono giocare un ruolo centrale”.
Il miglioramento dei conti non è, però, senza costi. Il Sistema sanitario nazionale ha visto ridursi le spese per il personale di circa l’1,5% l’anno negli ultimi tre anni a causa della mancata sostituzione di chi va in pensione, del blocco degli stipendi e dell’esternalizzazione di molte attività alle cooperative sociali. La dinamica della spesa farmaceutica convenzionata è diminuita del 7,6% l’anno negli ultimi tre anni.
Il contenimento della spesa è avvenuto anche attraverso forme di razionamento quali le liste di attesa o i tetti sui volumi di prestazioni erogabili dai privati accreditati. A motivo di tali vincoli, i privati accreditati si trovano a utilizzare, in media, poco più del 70% della propria capacità produttiva, con evidenti minacce al loro equilibrio economico. Più in generale, a risentire dei tagli è tutto il settore sanitario privato, che in Italia impiega più di 110.000 persone e nel quale il Ssn riversa più del 60% dei propri finanziamenti.